La Daga del DestinoCapitolo 4

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    Trattandosi di un capitolo della storia scritto esclusivamente da me, mi permetto di pubblicarlo sul mio portfolio.
    Per chi fosse interessato al prequel o per avere maggiori informazioni sui personaggi, visitate questi due indirizzi: web -- forum



    Trama: Martine e Guy sono diretti a York, per recuperare il pezzo della daga.
    Capitoli: in corso
    Genere: Avventura, Azione, Drammatico, Romantico
    Rating: Arancione
    NB: presenza di sangue e scene violente
    Completa: no





    3 Marzo 1192
    Giorno 6
    Strada per York




    Sentì qualcosa di umido caderle sul braccio. Delle macchie scure si stavano allargando sulle maniche color cenere. Alzò lo sguardo.
    In quel punto a foresta era meno fitta, e tra poche miglia sarebbe scomparsa del tutto per un lungo tratto. Tra i rami intricati riusciva a scorgere i raggi del sole e, guardando più attentamente, poteva vedere il cielo azzurro.
    Finalmente, pensò tra sé.
    Era stanca di tutta quella neve e pioggia. I vestiti e le scarpe erano completamente sporchi di fango, ed era impossibile muoversi senza sprofondare nelle pozzanghere.
    Altre gocce, altre piccole macchie sull'abito. Ma non la preoccupavano. Non era un nuovo temporale in arrivo, era solo un po' d'acqua che scendeva dalle foglie degli alberi.
    Si mise a fischiettare un motivetto che da giorni le girava per la testa. Era felice.
    Pochi minuti e sarebbe arrivata a casa.
    “Quanto manca? Sono stanco!”.
    Josef la stava fissando, seduto in mezzo alle ceste di frutta e verdura. Tra le mani aveva il suo pupazzo preferito, un guerriero con arco e frecce.
    “Manca poco. Vedi i tronchi gemelli? Sai che significa?”.
    “Sì... lo so. Fra poco vedremo la roccia col buco, poi casa dello zio Phil e poi... e poi... e poi casa” rispose, alzandosi in piedi e rimanendo a stento in equilibrio. “Ma io sono stanco adesso!”.
    “Josef, mettiti seduto!” gli disse. Si girò e, tenendo le briglie con una mano, afferrò il figlio con l'altra. Ma il piccolo non sembrava volersi sedere, né venire tra le sue braccia.
    “Ma mamma... la strada” diceva, indicando oltre la donna e il cavallo.
    “Josef, non farmi arrabbiare! O ti metti seduto o vieni qui in braccio!”.
    “La strada, mamma... sulla strada... guarda!” insisteva, gli occhi sempre puntati avanti.
    “Josef! Lo sai che il cavallo e la mamma conoscono la strada. O ti metti seduto oppure...”.
    Non finì la frase che il carro si mosse in maniera inaspettata. Il cavallo nitrì e s'impennò.
    Rose si girò di scatto e tirò le redini, cercando di calmare l'animale. Nel frattempo Josef era caduto in mezzo alle ceste. Piangeva, stringendo tra le mani il suo pupazzo mezzo rotto.
    Il cavallo si fermò, continuando a nitrire spaventato. La donna guardò oltre l'animale, per capire cosa doveva averlo spaventato a tal punto.
    Una ragazza se ne stava in mezzo alla strada, le braccia aperte. Stava piangendo, e solo allora Rose si rese conto che stava dicendo qualcosa.
    “Aiutatemi! Aiutatemi, Vi prego!” continuava a ripetere.
    Sebbene sporchi di fango, i suoi abiti erano quelli di una ricca signora. Anche la sua pelle, candida e senza una ruga, stava ad indicare che non era solita trascorrere le sue giornate in mezzo ai campi.
    Deve essere caduta vittima di qualche brigante, pensò Rose, mentre scendeva dal carro e le andava incontro.
    “Aiutatemi, ve ne prego. Non so cosa sia successo. Un attimo fa era in piedi, e adesso... lui...a terra...”.
    La ragazza stentava a parlare, le lacrime che non smettevano di scenderle dagli occhi.
    Rose le mise le braccia sulle spalle, costringendo la sconosciuta a guardarla.
    “Hey. Hey! Ascoltatemi. Cosa v'è successo, madame? Siete ferita? Siete sola? Chi non è più in piedi?”.
    La ragazza tirò su col naso, si pulì il volto con una mano e deglutì.
    “Potete seguirmi a piedi fino all'angolo?”.
    Rose si girò verso il carro. Suo figlio aveva smesso di piangere e se ne stava in piedi a fissarla.
    “Datemi un attimo” disse, tornando verso il cavallo.
    “Josef, piccolo. La mamma va a vedere una cosa. Tu rimani qui, intesi?”.
    “Chi è quella?” chiese, sospettoso e spaventato.
    “Una signora che ha bisogno di me. Mi prometti di fare la guardia al carro? Me lo prometti?”.
    “Ma io voglio venire con te”.
    Rose gli accarezzò dolcemente la guancia, sorridendo. “Mamma ora deve aiutare questa signora. Fai il bravo ometto. Sei il mio ometto speciale?”.
    Il piccolo annuì, non molto convinto. “Però mi siedo davanti” disse, scavalcando le ceste e sedendosi al posto di guida. Rose sospirò, gli disse di tenere strette le redini e di non muoversi per nessun motivo.

    Superarono di corsa due enormi alberi intrecciati che si piegavano ad arco sopra le loro teste, svoltarono l'angolo e Rose vide una figura scura in mezzo alla strada.
    Più si avvicinavano, più era chiaro che si trattava di un uomo, steso a terra, immobile.
    La ragazza s'inginocchiò al suo fianco, incurante del fango che le sporcava le vesti preziose.
    “Non so cosa sia successo. Un attimo fa era in piedi, stava bene. All'improvviso s'è accasciato e non s'è più mosso”.
    Rose si chinò vicino al corpo. L'uomo portava una spada e, guardandolo meglio in volto, aveva qualcosa di familiare.
    “Respira, ma credo abbia la febbre” continuava a mormorare la giovane, le mani tremanti che accarezzavano la testa dell'uomo. “Abbiamo cavalcato tutta la notte. Dovevamo raggiungere York il più presto possibile. Gli abiti erano fradici a causa della pioggia, forse il freddo e la fatica l'hanno fiaccato...”. Le lacrime avevano ripreso a scenderle lungo le guance, il terrore in quegli occhi che pareva essere dolci e gentili. “Vi prego, milady. Io so come curarlo. Ma non posso farlo in mezzo al fango. Non potrei farcela da sola a metterlo sul cavallo, e non credo sarebbe comunque una buona idea. Voi avete un carro, potreste scortarci fino al prossimo villaggio o alla prima locanda. Vi pagherò qualsiasi cifra, ve lo prometto. Non ci abbandonate”. La ragazza era spaventata, e attendeva con ansia una sua risposta.
    Rose la fissava, incerta sul da farsi. Avrebbe potuto accompagnarli fino alla Locanda del Calderone, distante poche miglia; ma c'era qualcosa in quell'uomo che non la convinceva. Ma non poteva nemmeno lasciarli in mezzo alla strada solo in base ad un vago sospetto.
    Si rimise in piedi.
    “Prendete i cavalli. Li legheremo al carro. Come avete detto di chiamarvi?”.
    “Martine”.



    Il villaggio di Todwick comparve oltre la collina. Era un agglomerato di una decina di case, per lo più di legno ed argilla. Si poteva scorgere il tetto della piccola chiesa, l'edificio più alto di tutti.
    I contadini erano già nei campi, e si trascinavano faticosamente dietro l'aratro tirato dai buoi.
    C'era un buon odore di erba bagnata e terra appena smossa, e l'aria era fresca.
    Respirò a pieni polmoni, sperando di risvegliarsi dal torpore che la stava assalendo.
    Grazie all'aiuto di quella donna, Rose, avevano trovato un passaggio. Era stata una fatica non da poco caricare Guy sul carro, e per tutto il tempo l'uomo era rimasto incosciente. Martine sperò non fosse niente di grave. Aveva abbastanza medicinali nella borsa da poter curare tutto il paese. Ma erano per lo più antidolorifici ed aspirine. In quell'epoca, qualcosa di più di un raffreddore poteva portare un uomo sano alla morte. Rabbrividì solo al pensiero, e si strinse ancora di più al corpo di Guy.
    “Siamo arrivati, milady”.
    Martine alzò lo sguardo, sporgendosi dal carro. S'erano fermati di fronte ad una casa molto più grande rispetto alle altre del villaggio. Era sempre fatta di legno ed argilla, ma composta di due piani. Accanto, vi erano una specie di rimessa pieni di attrezzi da lavoro e una stalla.
    “Voi afferratelo per le spalle, io lo reggerò per i piedi”. Rose aveva aperto il retro del carretto, mentre alcune persone stavano già scaricando le ceste di frutta e verdura.
    “Lady Trent, cosa è successo?”. Un uomo non molto anziano era uscito di corsa dalla casa, ed ora fissava la scena a bocca aperta.
    “Li ho trovati in mezzo alla strada. George, prepara dell'acqua calda, subito!”.
    L'uomo rimase immobile per qualche secondo, indeciso se obbedire o aiutare la sua padrona.
    “George! Non ci sarai d'aiuto qui fuori!” gli urlò la donna.
    Non se lo fece ripetere due volte e corse via.
    “E' un brav'uomo. Un po' inutile a volte, ma fa quello che può” cercò di giustificarsi, mentre lei e Martine avevano spostato il corpo di Guy a terra.
    Vennero in loro aiuto alcuni giovani, che molto più velocemente lo sollevarono e portarono dentro casa.
    “Di qua, seguitemi! Lì, mettetelo lì!”. Guy venne adagiato su un letto, in una piccola stanza dalla parte opposta a dove erano entrati. Rose ringraziò per l'aiuto e congedò i ragazzi.
    “Allen, Fred. Occupatevi voi della distribuzione. Dite a tutti che potranno passare domani per il pagamento. Non c'è fretta. Intesi?”. I due annuirono, e con un inchino uscirono dalla stanza.
    Martine osservò meglio la donna. Non doveva essere molto più vecchia di lei. Aveva lunghi capelli biondi, il volto magro ma deciso. Nei sui occhi aveva notato subito la sicurezza e il coraggio. Doveva essere una donna forte e, da come la trattavano tutti, anche molto rispettata.
    “Ecco l'acqua” disse George, appoggiando sul pavimento un calderone fumante. Uscì di corsa dalla stanza, lasciandole sole.
    “Avete detto di poterlo curare”. Rose la fissava, in attesa.
    Martine si fece prendere dal panico. Non era mai stata una brava infermiera, e non sapeva da dove cominciare. “Dobbiamo... dobbiamo toglierli i vestiti umidi, prima di tutto” decise infine.
    Rose annuì, iniziando a slacciare i ganci a forma di lupo sulla giubba dell'uomo.
    Li ho già visti questi ganci, ma dove, continuava a chiedersi.
    Gli tolse la maglia, mentre Martine sfilava stivali e pantaloni. La donna vide che la giovane stava arrossendo, e sorrise.
    “E' vostro marito?” chiese, mentre prendeva delle pezze di stoffa da una cesta accanto al letto.
    “No! No... non è mio marito” balbettò, afferrando lo straccio che le veniva passato dalla donna.
    “Ve la sentite di proseguire? Vi vedo turbata. Ce la fate?”.
    Martine annuì. “Bene. Ora dovremo ripulirlo” le disse, immergendo il panno nel calderone.
    Cadendo, Guy era finito in mezzo al fango. Aveva macchie ormai secche di terra per tutto il corpo.
    Martine gli pulì delicatamente il volto, e non riuscì a trattenersi dal fargli una carezza. Poi gli sollevò la testa, per toglierli dei pezzi di fango rappresi tra i capelli. E notò qualcosa sul cuscino: una macchia rossastra. Sangue, osservò con orrore.
    Guardò il pezzo di stoffa nella sua mano ed era anch'esso rosso.
    “Che succede?” chiese Rose, vedendo che la ragazza s'era fermata. Poi abbassò lo sguardo sullo straccio, e vide la macchia. “E' ferito?”.
    Martine spostò i capelli e vide da dove arrivava il sangue. In cima alla nuca c'era un taglio di circa cinque centimetri. Il sangue s'era un po' raggrumato, sebbene la ferita fosse ancora aperta.
    La trave di legno, pensò Martine. Poche ore prima, alla locanda, Robin aveva atterrato Guy con un enorme pezzo di legno. Tranquilla, ha la pellaccia dura, se la caverà, aveva detto il fuorilegge, con quel sorriso ammiccante che lei cominciava ad odiare.
    “Dobbiamo... dobbiamo chiudere la ferita” disse, rabbrividendo.
    Se c'era una cosa che proprio non poteva sopportare, che la obbligava a distogliere lo sguardo, che le faceva venire da vomitare all'istante... beh, era quella.
    “L'avete già fatto prima d'ora?” chiese Rose, notando che il volto della ragazza era più bianco di prima, quasi tendente al verde.
    “No. Ma non c'è altra soluzione. La ferita è sporca di terra, quindi sicuramente infetta. Non sappiamo ancora per quale motivo sia svenuto. Spero sia solo febbre e non un trauma cranico. Ma chiudendo la ferita almeno eviteremo che muoia per un'infezione batterica. Avete ago e filo, per caso?”.
    Alzò lo sguardo e vide che la donna la fissava basita.
    Cazzo, pensò tra sé. Parlare come dottor House non era il massimo in un'epoca dove praticare salassi era il top della medicina.
    Rose si alzò e uscì dalla stanza, lasciandola sola. Martine la seguì con lo sguardo, senza sapere cosa sarebbe successo. Prese uno straccio, lo immerse nell'acqua e ripulì il taglio dalla sporcizia. Tolse anche alcune schegge di legno, e maledì Robin e la sua trave innocua.
    Sentì dei passi e vide la donna tornare. Nelle mani stringeva dello spago e un ago. Glieli porse e l'aiutò a tenere sollevato il corpo di Guy.
    L'ago era spesso, lungo una decina di centimetri. Lo strofinò per bene con lo straccio imbevuto di acqua calda, cercando di sterilizzarlo il più possibile. Infilò lo spago nel buco, fece il nodo e si avvicinò alla testa dell'uomo.
    Martine deglutì, rimanendo immobile con la mano a mezz'aria. Chiuse gli occhi, respirò profondamente un paio di volte e, aprendo appena le palpebre, infilò l'ago nella pelle.
    Adesso vomito, pensò.
    Doveva resistere. La vita di Guy dipendeva da lei. Tirò lo spago, infilò di nuovo l'ago nella pelle e unì i lembi della ferita. Una, due volte.
    Meglio di una sarta, rise dentro di sé, la sensazione di vomito che si andava allentando.
    Non era facile evitare che i lunghi capelli di Guy si impigliassero nello spago. Sarebbe stato meglio tagliarli, ma ormai era già a metà dell'opera. Pochi minuti e il taglio era chiuso.
    Martine osservò soddisfatta il suo lavoro, mentre ripuliva la ferita dal sangue che stava lentamente uscendo. Fasciò la testa dell'uomo, e lo adagiarono sul cuscino.
    “Siete stata brava e coraggiosa” osservò Rose, sorridendo.
    “Grazie. Ma spero sia stata la prima e ultima volta” e si lasciò cadere a terra, sfinita.
    La padrona di casa chiamò George, che arrivò in pochi secondi. Molto probabilmente il vecchio stava origliando alla porta.
    “La nostra ospite ha bisogno di un bagno caldo. Fa sistemare la stanza di Henry, per cortesia”.
    Martine si alzò in piedi di scatto.
    “Madame, vi prego, non vi disturbate. Mi basta un po' d'acqua e una sedia. Niente più”.
    Rose fece finta di non sentirla e continuò ad istruire George, che si dette subito da fare.
    “Madame, non è necessario...” ma insistere pareva essere inutile.
    La donna le si avvicinò e le prese le mani. Solo allora Martine si rese conto che erano sporche di sangue e fango. Anche le maniche del vestito erano sudicie. Aveva decisamente bisogno di un bagno e di un cambio d'abito. Ma non voleva abbandonare Guy.
    Rose se ne accorse, e le assicurò che non avrebbe lasciato l'uomo da solo mentre lei era assente.
    “Ve lo prometto. Vi chiamo se succede qualcosa” disse, sorridendo.
    Martine annuì.



    Immersa nell'acqua calda, sentiva lo stress e la stanchezza scivolare via.
    Sembravano passati secoli dall'ultimo bagno vero e proprio. Invece erano trascorsi solo cinque giorni da quando avevano lasciato la Nottingham del futuro.
    Il futuro. Sarebbero riusciti a tornare sani e salvi?
    Fino a poche ore prima era una certezza. Il pezzo della daga ritrovato e nelle sue mani. Avrebbero detto addio a quell'epoca senza acqua corrente e MacDonald's.
    Invece era andato tutto in fumo, con la probabilità di non ritrovare mai più quel maledetto dente.
    “Imhotep comparirà e noi saremo fottuti” disse, parlando ad alta voce con sé stessa.
    In fin dei conti, non era poi così grave. Il pezzo della daga era piccolissimo, di sicuro il sacerdote egizio non poteva regnare sul mondo con una misera pietruzza.
    Con questa convinzione in mente, Martine uscì dalla vasca. Non era così semplice come entrarvici, e quasi inciampò sulle lenzuola bagnate.
    La stanza era piccola e pulita. All'angolo opposto alla porta c'era un enorme letto, con accanto una cassapanca in legno. Rose le aveva portato alcuni suoi abiti, che ora stavano appoggiati su uno scrittoio, accanto all'unica finestra della stanza.
    Martine indossò un lungo vestito verde, aggiungendovi sopra un ulteriore vestito marrone. La chiusura a lacci laterale era l'unica parte difficile della vestizione. C'era una bella differenza tra questi abiti semplici e quelli raffinati di Marian. Però li sentiva più veri, più reali. Peccato non ci fossero specchi, avrebbe tanto voluto vedersi così abbigliata. “Che vanitosa” esclamò, ridacchiando.
    Raccolse da terra la sua borsa e tirò fuori il diario. Doveva assolutamente scrivere degli ultimi avvenimenti. Erano successe così tante cose che rischiava di dimenticarle.
    Tirò fuori la penna, sperando non entrasse nessuno nella stanza, e si mise a scrivere.
    Scrisse del terribile incontro con lo sceriffo, dell'agguato alla locanda e dell'incidente di Claudia.
    ...perlomeno, eravamo tutti sani e salvi. Fino a ieri...”.
    Smise di scrivere. Chissà come stava ora Claudia. Ripensare a come era stata picchiata da quel bastardo le fece venire i brividi. Faith era sconvolta, non l'aveva mai vista così.
    “Spero stiano tutti bene”.

    Non siamo riusciti a raggiungere la carrozza. La speranza è che il dente sia ancora lì.
    Mi spiace anche per il falco. Povero animale, starà morendo di fame.
    E' tutta colpa mia e della mia sbadataggine. Se avessi nascosto il pezzo della daga in un posto meno accessibile, se non l'avessi lasciato nel fazzoletto... ma è inutile pensarci adesso.
    L'importante è rimetterci al più presto sulle tracce della carrozza. Non appena Guy si sarà ripreso...


    Appoggiò la penna. Guy...
    Il cuore le si era fermato nel vederlo cadere a terra, in mezzo alla strada nella foresta. Era successo tutto così in fretta, ma ripensandoci vedeva la scena al rallentatore. Un attimo prima era in piedi, un secondo dopo era immobile. Le veniva da piangere, ancora. Ma doveva trattenere le lacrime. Doveva essere forte, sia per sé che per Guy.
    Mise via il diario, nascose la borsa sotto il letto e uscì dalla stanza.



    “State tranquilla. Prima mangiate qualcosa”.
    Rose l'aveva fatta sedere quasi con la forza. La tavola era apparecchiata per due e la minestra fumante non aspettava altro che essere mangiata.
    “Volevo solo controllare che stesse bene...” disse Martine, impaziente. In mano stringeva una bustina di antipiretico. Doveva riuscire a far prendere a Guy quella medicina il più presto possibile.
    Ma non voleva essere scortese con la sua ospite e, sebbene con lo stomaco ancora chiuso dalla tensione, affondò il cucchiaio nella ciotola. Era calda e molto buona, e senza rendersene conto la finì in pochi minuti. Rose sorrise.
    Chissà cosa è successo a questa ragazza, pensò. Non sapeva niente di lei e dell'uomo misterioso nell'altra stanza. Aveva timore di spaventarla con le domande, ma doveva pur sapere chi stava ospitando sotto il suo tetto.
    “Ora che vi siete riposata e rifocillata, magari vi va di raccontarmi cosa vi è successo nella foresta, e come il vostro compagno di viaggio si sia fatto quella ferita”.
    Martine fece cadere il cucchiaio di legno per terra, rovesciando qualche goccia di minestra.
    “Oh... che maldestra” si scusò, mentre si chinava a raccogliere l'oggetto da terra. E ora che le dico?
    Rose la stava fissando, in attesa di una risposta.
    “Ero ospite di sir Guy” e con lo sguardo indicò la stanza alle sue spalle. “Siamo stati assaliti dalla banda di Robin Hood. Avevamo fatto una sosta alla locanda di Greenwood quando il fuorilegge ha colpito Guy con una trave. Siamo ripartiti poche ore dopo per York. Abbiamo una questione della massima urgenza che ci attende. Ma poi... Guy... beh, ci avete trovati voi, in mezzo alla strada”.
    Non osava alzare lo sguardo, ma sentiva che la donna continuava a fissarla.
    “Sir Guy... sir Guy di Gisborne?”.
    Martine annuì, pentendosi di aver detto quel nome. Era meglio se mi inventavo che si chiama Alfred.
    Rose rimase in silenzio, poi si alzò e cominciò a liberare la tavola.
    “Se volete, adesso potete andare dal vostro compagno”. Il tono era serio.
    “Vi ringrazio, milady. Se non è troppo disturbo, potrei usare questo?” e sollevò il bicchiere davanti a lei.
    “Certo. Ora vorrete scusarmi. Ho degli impegni che mi attendono” e con un sorriso, che Martine notò essere alquanto forzato, uscì di casa. Sentì la voce del bambino provenire dal giardino, e delle risate.
    Aprì la bustina che teneva in mano, versò la polvere nel bicchiere colmo d'acqua e si diresse verso la stanza alle sue spalle.
    Guy era ancora nella stessa posizione, immobile, il respiro leggermente accelerato.
    Martine si avvicinò al letto, e gli mise la mano sul volto. Scottava, ed il sudore gli imperlava la fronte. Gli sollevò la testa, gli appoggiò il bicchiere sulle labbra e, lentamente, un sorso alla volta, gli fece bere l'antipiretico.
    Appoggiò il bicchiere sul tavolino accanto al letto, e tornò ad occuparsi di Guy. Tolse la fasciatura alla testa e controllò la ferita: il sangue stava formando una piccola crosta, ma sembrava esserci una leggera infezione. Prese uno straccio pulito e, dopo averlo immerso nell'acqua, ripulì il taglio. Poi, con un altro pezzo di stoffa pulita, fasciò di nuovo la testa. Gli asciugò il volto dal sudore e gli mise una pezza umida sulla fronte.Non poteva fare altro. Si sentiva impotente. Sperava fosse solo febbre a tenere Guy in quello stato.



    Immagini confuse, sfuocate, come se vi fosse una nebbia impalpabile tra lui e ciò che gli stava di fronte. Una foresta buia ed umida, un uomo incappucciato che sorrideva, paglia, sangue, qualcosa che gli legava le braccia, il volto gentile di una ragazza, un cavallo che correva nella pioggia. Freddo. Buio.
    Aprì gli occhi lentamente. Ancora buio.
    Sentiva le palpebre bruciare, mentre cercava di mettere a fuoco l'ambiente che lo circondava. Era disteso su di un letto, il corpo mezzo nudo coperto da un lenzuolo. Era sudato e sentiva molto caldo. Cercò di mettersi seduto, ma la testa girava troppo. Chiuse gli occhi, respirò lentamente. Provò a rialzarsi e stavolta si sentì più stabile. Rimase seduto in quella posizione per qualche minuto, cercando di trattenere la fastidiosa sensazione di vomito che l'assaliva. Il pavimento era freddo sotto i suoi piedi, e ciò gli diede un po' di sollievo.
    Dalla porta lì accanto proveniva una flebile luce rossastra, che gli permise di mettere a fuoco la stanza. Non era molto grande, le pareti erano formate da assi di legno e c'era una sola finestra ben chiusa. Al centro della stanza c'era il letto su cui stava seduto, una sedia ed un piccolo mobile con sopra una candela spenta ed un bicchiere. Poco lontano dal letto si trovava un baule, con sopra quelli che dovevano essere dei vestiti.
    Ricordò di essere mezzo nudo e decise che era meglio mettersi qualcosa addosso prima di uscire da quella porta. Raccogliendo le forze, si mise in piedi e vi rimase per qualche secondo, prima di perdere l'equilibrio e urtare il mobile accanto al letto. Il bicchiere cadde, rompendosi e rovesciando l'acqua sul pavimento. Il rumore dell'oggetto che andava in mille pezzi squarciò il silenzio. Udì dei passi veloci che rimbombavano sopra la sua testa.
    Corse, o meglio, provò a camminare veloce in direzione del baule. Nell'oscurità iniziò a rovistare tra gli indumenti. Erano sicuramente in pelle, lo capiva dalla consistenza e dall'odore. Alcune immagini sfuocate comparvero nella sua mente. Un castello. Uomini vestiti di nero. Un vecchio senza un dente. Cercava di capire cosa fossero, quando toccò qualcosa di freddo, un attimo prima che una luce accecante lo colpisse.
    Si volse rapidamente verso quella fonte luminosa, una mano alzata a coprirsi gli occhi. Due, tre sagome si stagliavano sulla porta, ma poteva solo vederne i contorni. Poi una di loro parlò.
    “Guy! Oh sia lodato il cielo, stai bene!”. Era la voce di una donna giovane, una delle sagome che non metteva ancora a fuoco. Vide che s'avvicinava svelta, come correndo.
    “Non vi muovete donna!” urlò. Era la sua voce? Ebbe come la sensazione di sentirla per la prima volta in vita sua.
    “Guy... sono io... Martine”. Era ormai a pochi passi, ora poteva vederla chiaramente in volto. La riconobbe: era la ragazza vista in sogno. Ma non poteva fidarsi di lei.
    “State indietro!”. Con un movimento rapido le puntò contro una spada appena trovata accanto al baule. “Vi conviene starmi lontano, milady. Non esiterò ad uccidervi se farete ancora un passo”.
    La ragazza era visibilmente scossa e aveva alzato le braccia, mentre arretrava verso la porta. Alle sue spalle, alcune sagome si erano allontanate di corsa, urlando qualcosa.
    “Guy, metti via quella spada. Non vedi? Sono io, sono Martine!”.
    “Non so chi voi siate, milady” disse, mentre continuava a tenera la spada puntata contro la ragazza.
    Puntini bianchi simili a fiocchi di neve gli offuscarono la vista, facendolo barcollare. Un dolore lancinante ed intenso alla testa lo costrinse a piegarsi su sé stesso. Sentì dei passi, vide l'orlo di una gonna e una mano che gli toccava la spalla.
    “Oh no, stai sanguinando di nuovo, devi tornare a letto!”. La ragazza che diceva di chiamarsi Martine lo sorreggeva, il tono di voce realmente preoccupato.
    “State lontana da me!”. Le diede una spinta, facendola cadere a terra. Cercò di correre verso la porta, ma quella neve leggera divenne di un bianco compatto davanti ai suoi occhi. Sentì il mondo intorno a sé girare vorticosamente. E fu di nuovo buio.



    Rimase a vegliarlo tutta la notte. Non voleva rischiare che l'uomo facesse ancora qualche gesto avventato.
    Rose aveva suggerito di legarlo al letto, su consenso di gran parte dei presenti.
    “Per il suo bene... e per il nostro” aveva aggiunto.
    Martine aveva scosso la testa e si era offerta volontaria per fare la guardia. A nulla era valsa l'insistenza della padrona di casa che, vedendo la testardaggine della giovane, dopo un po' aveva lasciato perdere.
    “Farò mettere qualcuno fuori dalla porta, in caso doveste avere bisogno. Mi raccomando: non esitate a chiamare” sottolineò, dando poi ordini ad uno dei giovani che stavano nella stanza, lo stesso che aveva aiutato Rose a scaricare il carretto e aveva aiutato a rimettere Guy nel letto.
    Martine si sentiva a disagio, non era sua intenzione mancare di rispetto alla sua ospite, ma non poteva lasciare che legassero Guy. Preferiva vegliarlo personalmente. Era una sua responsabilità ed era suo compito fare in modo che l'uomo guarisse in fretta e senza traumi.
    La reazione al suo risveglio aveva allarmato la giovane. Guy pareva non riconoscerla e sembrava disorientato. Martine sperava che fosse solo la febbre a renderlo confuso. Non osava immaginare che la botta in testa infertagli da Robin Hood potesse avergli causato la perdita della memoria.
    Sospirò, seduta sulla sedia accanto al letto, nella stanza illuminata solo dalla flebile luce della candela.
    Il respiro di Guy era lento, ma stava sicuramente avendo qualche incubo. Le palpebre chiuse tremavano mentre dalla sua bocca uscivano parole senza senso.
    Martine non sapeva cosa fare. La ferita alla testa aveva perso altro sangue e l'unica cosa che poteva fare era pulirla e cambiare la fasciatura. La sutura pareva reggere e non sembrava esserci traccia di infezione.
    Martine si alzò dalla sedia. Era seduta ormai da ore e sentiva i muscoli indolenziti. Fece qualche passo per la stanza, ma le assi scricchiolanti del pavimento facevano un rumore tale che la giovane aveva paura che Guy si svegliasse. Decise di prendere la sua sacca e sedersi di nuovo.
    Frugò alla ricerca di qualsiasi cosa, senza cercare un oggetto in particolare. Sentiva il sonno pesare sulle sue palpebre e non voleva rischiare di addormentarsi.
    Le dita toccarono un piccolo pezzo di carta e Martine lo tirò fuori dalla sacca.
    Era una foto, o meglio. Quella foto. La foto che ritraeva lei abbracciata ad un sconosciuto.
    Non riusciva ancora a capire. Chi era quell'uomo accanto a lei? Lo avrebbe conosciuto nel futuro?
    Questo le diede un barlume di speranza, perchè la foto stava a significare che sarebbe tornata a casa.
    Ma se venendo nel passato questo futuro si è inesorabilmente cancellato? Se non dovessimo mai tornare? Una strana sensazione di tristezza mista a paura l'assalì.
    Non aveva parenti dai quali tornare o un fidanzato che l'aspettasse a casa. Però non riusciva a pensare di rimanere incastrata in quell'epoca. Non voleva pensarci.
    Guy si mosse nel sonno, e Martine lo fissò.
    Quell'uomo l'avrebbe mai protetta ed accolta nella sua vita, se le cose fossero andate storte?
    Sebbene avesse un cuore indurito dalla crudeltà e dalla tristezza, la giovane era convinta che Guy fosse una brava persona. Aveva solamente bisogno di allontanarsi da ciò che lo stava corrompendo nell'anima.
    Gli sistemò le lenzuola, coprendolo fino all'altezza del collo.
    Sospirò ancora, mentre le palpebre calavano sui suoi occhi stanchi.



    Una piacevole sensazione di fresco alla testa lo stava trascinando lontano dal buio, da quelle visione sconosciute che lo tormentavano.
    Aprì gli occhi, sbattendo le palpebre più volte tanto gli bruciavano.
    Un volto sorridente chino su di lui, quegli occhi dolci che non riusciva a ricordare ma sapeva di conoscere.
    Una mano vicino alla tempia si muoveva piano. Lo stava bagnando con qualcosa, forse una pezza umida.
    Le afferrò il braccio, lo scatto troppo veloce per i suoi muscoli ancora doloranti. Finse di non sentire il dolore che lo circondava, e non distolse lo sguardo da lei.
    Rimasero in silenzio per qualche secondo, in attesa che uno dei due aprisse bocca per primo.
    Fu Guy a parlare.
    “Dove mi trovo? Chi siete? Sono ferito?”
    La gola gli bruciava, sentì la voce uscirgli secca e profonda.
    La giovane guardò prima la mano che le stringeva il polso, poi di nuovo lui. Guy lasciò lentamente andare la presa, senza smettere di fissarla. Cercò di mettersi seduto, ma le forze non glielo permettevano.
    La giovane capì cosa voleva fare e lo aiutò a sollevarsi, spostando i cuscini sulla schiena dell'uomo in modo che potesse stare seduto senza problemi. Poi gli offrì dell'acqua, che Guy accettò senza fiatare. La mano tremava visibilmente, e la giovane strinse le sua mani attorno a quelle dell'uomo, per aiutarlo. Guy non reagì, lasciando che lei lo aiutasse.
    La stava osservando. I capelli, la linea del volto, gli occhi, le mani. Conosceva il suo profumo, sapeva di aver già stretto a sé quel piccolo corpo di donna. Ma non capiva perchè gli apparisse come un'estranea.
    “Il vostro nome” chiese, quando lei riprese il bicchiere, appoggiandolo sul mobile accanto al letto.
    Il volto della giovane parve cambiare espressione, come se quella semplice frase l'avesse improvvisamente rattristata.
    “Martine. Non ti ricordi di me?” chiese, una nota di speranza nella sua voce.
    Guy la fissò, facendosi nervoso ad ogni secondo che il suo sguardo indugiava sulla giovane. Guardò altrove, fissando qualcosa nel vuoto.
    “Avevi una profonda ferita alla testa. L'ho pulita e richiusa, ma credo... credo che la botta in testa ti abbia fatto perdere la memoria.”
    Martine ne era ormai convinta. Lo sguardo perso di Guy, quelle domande, la reazione violenta e confusa del pomeriggio: tutto stava ad indicare che l'uomo non ricordava nulla.
    Sentì le lacrime salirle al viso, ma cercò di trattenerle. Non era il caso di allarmare Guy, doveva essere forte e cercare di aiutarlo.
    “Hai fame? Sono due giorni ormai che non tocchi cibo.”
    L'uomo continuò a fissare il nulla davanti a sé. Sentiva il vuoto nella mente e quella condizione lo spaventava. Era come se gli avessero tolto la sua anima, e dovesse vagare per sempre senza sapere chi fosse e quale fosse la sua strada.
    Senza voltarsi annuì debolmente con la testa. La consapevolezza di non aver toccato cibo per giorni fece sobbalzare lo stomaco. Riconosceva di aver fame.
    Martine sorrise. Era un bene che avesse appetito, significava che presto si sarebbe rimesso in forze. Si alzò dalla sedia. Doveva parlare con la servitù della casa, e sperava ci fosse qualcuno di sveglio che le desse almeno un pezzo di pane e del latte.
    “Mi prometti di stare buono e fermo fino al mio ritorno?” gli chiese, preoccupata che potesse alzarsi ancora dal letto e cadere di nuovo a terra privo di sensi.
    Guy si girò a guardarla e, cosa che lasciò la giovane sorpresa, le sorrise.
    “Attendo il vostro ritorno, Martine.”

    Edited by Nim - 5/6/2012, 18:58
     
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  2. Nim
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    Non badò al sottile e duro materasso che la sorreggeva e alle travi di legno che scricchiolarono sotto il suo peso. Sentiva il proprio corpo sciogliersi lentamente, mentre la sensazione di mille spilli conficcati nei piedi si propagava per le gambe fino alla schiena dolorante. Martine aveva trascorso la giornata in piedi o meglio, per essere più precisi, correndo avanti ed indietro per la casa di Rose. Lady Trent non aveva tardato a trovarle qualcosa da fare e le mansioni da svolgere in quella tenuta sembravano non finire mai. Martine s'era trovata dunque a tagliare le verdure ed impastare il pane, pulire le stanze della casa, dare da mangiare alle galline e ai maiali. Quest'ultima attività l'aveva ridotta ad un mostro di fango, talmente sporca e puzzolente che Rose, vedendola e cercando di trattenere una risata, le aveva concesso di darsi una pulita e riposarsi prima di cena.
    Grazie al cielo sono un'ospite, non potrei mai faticare così fino alla fine dei miei giorni! Pessima idea propormi volontaria, pessima pessima idea.
    Aveva abbandonato l'abito sul pavimento, onde evitare di sporcare la stanza che aveva pulito personalmente. Il fango si era ormai seccato e sicuramente la stoffa sarebbe tornata pulita dopo un vigoroso lavaggio; eppure Martine si sentiva estremamente in colpa. Rose era stata tanto gentile da prestarle i propri abiti e sperava non si fosse troppo arrabbiata per il disastro che aveva combinato.
    "Non so portata per la vita bucolica, ammettiamolo. Le gonne lunghe, poi. Parliamone: come si fa a lavorare con tutta questa stoffa addosso? Tutta colpa tua!" urlò dalla finestra, l'imprecazione rivolta ad uno dei maiali che razzolavano in giardino. La zampa dell'animale, impigliatasi nelle pieghe del vestito, era stata colpevole di averla fatta cadere faccia in giù nel fango. "Spero ti sia piaciuto il pranzo!" aggiunse, chiudendo rumorosamente le ante della finestra. Il maiale non badò più di tanto a quella sfuriata e tornò a ficcare il naso nel fango.


    Si bloccò appena oltre la porta della sala principale. Una giovane cameriera, conosciuta durante la mattinata, stava portando in tavola i piatti con la cena. Rose stava chiacchierando con un uomo che Martine non riusciva a riconoscere, dandole questi le spalle. La padrona di casa la guardò e sorrise, invitandola ad entrare nella sala.
    "Lady Wescott, vi presento mio marito: il signor Henry Trent."
    Martine fece un leggero inchino, mentre l'uomo si alzava rapidamente dalla sedia e si avvicinava a lei, ricambiando il cortese saluto. "Mia moglie mi ha parlato di voi e del vostro incidente. Quale tremendo spavento deve essere stato per voi."
    "Quale grande fortuna per me incontrare vostra moglie. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per la cortese ospitalità."
    Martine si sentiva piuttosto a disagio ed era certa che fosse ben visibile agli altri. Le mani sudaticce si stringevano nervosamente l'una con l'altra, mentre un calore improvviso le saliva alle guance. Se aveva capito bene il nome dell'uomo, Martine si era resa conto di occupare la stanza del padrone di casa. Ma come poteva saperlo? Nessuno le aveva mai detto chi fosse questo Henry, sebbene tutti parlassero di Lord Trent.
    L'uomo doveva avere circa una trentina d'anni, sebbene fosse difficile per una ragazza del ventunesimo secolo capire l'età esatta delle persone di quell'epoca. Portava i capelli color ambra lunghi fino alle spalle, ed una barba rossiccia gli copriva il volto. Aveva dei chiari occhi gentili e il sorriso era quello di una brava persona. Era piuttosto alto e gli abiti stavano molto larghi su di un fisico non troppo prestante.
    Rose, notando l'imbarazzo della giovane, la invitò a sedersi a tavola, cosa che Martine fece senza farselo ripetere. La cena fu ottima e Martine si sentì soddisfatta del lavoro fatto in cucina. Il cibo sembrava ancora più buono dopo tutto l'impegno messo per preparare il pane e la zuppa di verdure, e nessuno si era ancora lamentato o era finito avvelenato. Eppure la ragazza sentiva ancora imbarazzo e decise di parlare non appena i signori Trent smisero di discutere delle loro attività.
    "Vi devo chiedere perdono, signore. Se non erro, sto occupando la vostra stanza e vi assicuro che provvederò immediatamente a liberarla dalle mie cose."
    "Non vi dovete preoccupare, mia cara" rispose Henry, sorridendole. "Il mio posto ora è accanto a mia moglie" e così dicendo strinse la mano a Rose, che ricambiò con un sorriso dolce ed amorevole.
    "Mio marito è stato malato" spiegò Rose. "Per mesi abbiamo temuto per la sua vita ed in parte per la nostra, motivo per il quale non potevamo condividere la stessa stanza. Ma adesso è guarito, sebbene sia ancora piuttosto debole."
    Lord Trent sospirò, scuotendo la testa. "Mia moglie è sempre troppo apprensiva, ma non sarei qui se non fosse stato per lei. Quindi non posso fare altro che portare pazienza e mettermi in forze. E se voi continuerete a sfornare del pane così buono credo non sarà difficile."
    Martine arrossì, abbassando lo sguardo. Non aveva fatto altro che ubbidire agli ordini rapidi e confusi della cuoca, e dopotutto era solo del semplice pane.
    "Smettila Henry, la metti in imbarazzo. Avanti, è ora di andare a letto. Hai viaggiato tutto il giorno e sarai stanco. Forza" e con gentilezza gli mise una mano sulle spalle, mentre il marito accettava l'aiuto col sorriso. Martine li osservò allontanarsi verso le scale, la luce tremolante di una candela che lentamente spariva lasciandola sola in mezzo alla sala. La cameriera era tornata per pulire la tavola e la giovane si offrì di aiutarla.
    "Non vi preoccupate, Lady Wescott. Me ne occupo io. Sarete stanca dopo una giornata così pesante. Andate a riposare."
    La cameriera non doveva avere più di quindici anni, o forse meno. Martine rinunciò definitivamente a dare un'età alle persone e ringraziò la ragazza.
    "Qualcuno ha portato da mangiare al mio compagno di viaggio?"
    La cameriera si fermò, le mani pieni di piatti e bicchieri. Improvvisamente s'era fatta seria e confusa.
    "Non ho avuto ordini in merito, ma se volete posso preparare un altro piatto. C'è ancora zuppa sul fuoco e se avete pazienza di aspettarmi finché appoggio queste cose..." ma non finì la frase che Martine si stava già dirigendo in cucina. Usando il mestolo immerso nella pentola fumante lasciata sul fuoco del camino, versò della zuppa calda in un piatto trovato su di una mensola. Trovò un piccolo vassoio e vi poggiò il piatto, aggiungendo anche un bicchiere colmo di acqua fresca.
    "Ecco fatto, ormai sono di casa" esclamò sorridendo, prima che la cameriera protestasse. Si diresse lentamente verso la stanza dalla parte opposta alla cucina e, con l'aiuto del piede, aprì la porta.
    La luce di una candela danzava sulle pareti e Guy sembrava esserne ipnotizzato. L'uomo era ancora a letto, ma seduto ed appoggiato ai cuscini. Si sistemò meglio all'ingresso della giovane, spostando le coperte, e fu chiaro che non indossava altro se non i pantaloni. Martine maledì sé stessa per non avergli procurato degli abiti puliti. Appoggiò il vassoio sulle gambe di Guy e rimase in piedi, fissando l'uomo e sorridendo.
    "Ho portato la cena. Credevo se ne fossero già occupati, invece pare nessuno abbia avvisato la cameriera."
    Guy prese il cucchiaio e consumò rapidamente la zuppa, visibilmente affamato. Martine sospirò sollevata, comprendendo che l'uomo si sarebbe rimesso in fretta. Quando Guy ebbe finito, la giovane spostò il vassoio e si occupò della ferita alla testa. Il sangue aveva smesso di uscire ed una crosta spessa si era formata intorno al filo di sutura. Non sembrava esserci cattivo odore, segno di cancrena, quindi Martine si limitò a tamponare leggermente il taglio con un pezzo di stoffa umido.
    "Non mi vogliono in questa casa" disse Guy, rompendo il silenzio. Martine si fermò, non sapendo bene come rispondere. Era stata tutto il giorno impegnata a pulire e cucinare, e non aveva idea di cosa egli avesse fatto tutto quel tempo.
    "Che cosa te lo fa pensare?" chiese, afferrando dei pezzi di stoffa puliti e fasciandogli nuovamente la testa.
    "Un uomo metteva la testa dentro la stanza, mi fissava e poi richiudeva la porta. Così ogni ora. Sono certo non si sia mai allontanato da lì."
    Aveva ragione. Un ragazzo, su ordine di Lady Trent, se ne stava seduto accanto alla porta, pronto ad intervenire in caso di pericolo. Prima di entrare, Martine lo aveva visto dormire profondamente.
    "Controllava che stessi bene in mia assenza" mentì, sedendosi sul letto e sorridendo falsamente. Il timore di Rose la infastidiva, ma non poteva protestare. La padrona di casa aveva ragione di temere degli estranei e per di più stava loro offrendo cibo e riparo. Dovevano esserle grati.
    "Mmm" fu il commento di Guy, evidentemente non convinto dalle parole della giovane. Il fatto di non ricordare nulla lo angustiava. Aveva trascorso l'intera giornata tentando di ricordare qualcosa, ma in risposta riceveva solo immagini sfuocate e forti fitte alla testa. Si sentiva sempre meno debole ed era certo che non sarebbe rimasto sdraiato in quel letto a lungo.
    Martine si alzò, sistemandogli le coperte e afferrando il vassoio. Era stanca e aveva bisogno di dormire.
    "Dove vai?" chiese una voce alle sue spalle. Martine si volse e trovò Guy intento a fissarla.
    "E' stata una giornata pesante e domani dovrò impegnarmi a faticare ancora. Devo ricambiare l'ospitalità fino a che non sarai in grado di alzarti."
    "Rimani qui a dormire. Con me."
    Martine rimase qualche secondo senza dire una parola, fissando l'uomo con espressione chiaramente indecisa e confusa. Cosa aveva in mente?
    "Non credo sia appropriato..."
    "Non ho intenzioni disonorevoli, ho solo bisogno di avere accanto un volto familiare. Continuo ad avere incubi ed immagini confuse che si affollano davanti ai miei occhi." Guy sembrava realmente spaventato dai ricordi di un passato che non riusciva a ricordare. "Rammento il tuo volto ed è l'unico ricordo che non mi provoca dolore."
    Martine appoggiò il vassoio a terra, poco distante dal letto, e si sedette accanto all'uomo. Prese la sua mano per infondergli coraggio anche se, in realtà, cercava di rassicurare sé stessa. Aveva bisogno di Guy per raggiungere York, aveva bisogno di averlo accanto per sopravvivere in un mondo che non era il suo. Faith, Claudia, Nigel. I suoi amici erano distanti ed in quel momento Martine si sentì ancor più sola.
    "Va bene. Rimarrò con te stanotte" decise, stendendosi accanto a lui. Guy si spostò per permetterle di mettersi comoda e l'accolse sotto le coperte. Non osava toccarla, anche se rimase qualche istante a fissare le spalle della giovane. Martine sentiva il peso dello sguardo su di sé e cercò di rilassarsi, chiudendo gli occhi. Quando sentì che il respiro di Guy si faceva lento, si girò per osservarlo dormire. Sembrava tranquillo e la giovane sperò che per quella notte gli incubi del passato non lo tormentassero. Appoggiò delicatamente una mano sulla sua e, dopo qualche minuto cadde in un profondo sonno ristoratore.
     
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  3. Nim
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    5 Marzo 1192
    Giorno 7
    Todwick



    Sono seriamente preoccupata. Non per Guy: la ferita è pulita e lui sembra stare meglio, sempre escludendo la perdita di memoria.
    No, la mia preoccupazione è dovuta al fatto che sono passati più di due giorni e ci troviamo bloccati in questo villaggio perso in mezzo a chissà quale contea. La carrozza sarà arrivata a York? Anche contando sulla stupidità dei soldati dello sceriffo, una vettura vuota non farebbe tanta strada. Ed il pezzo della daga? Così piccolo... non oso immaginare le conseguenze di una caduta fuori dalla carrozza di un frammento così minuscolo.
    Resteremo in questo villaggio ancora un giorno, non possiamo tardare oltre. Guy deve rimettersi in fretta, deve riuscire a salire a cavallo. Se magari riuscissi a chiedere un piccolo carro a qualcuno...


    Appoggiò la penna, distratta da delle voci provenienti dal cortile. Martine s'era alzata poco prima dell'alba, lasciando dormire Guy e salendo nella stanza che un tempo era stata del malato Henry Trent. S'era cambiata d'abito e data una rinfrescata rapida.
    Fino a quel momento gli unici rumori che avevano accompagnato lo scorrere della penna sul diario erano stati il canto del gallo ed i passi di lady Trent che scendeva le scale.
    Si affacciò alla finestra e sbarrò li occhi: Guy stava in piedi in mezzo al cortile.
    Indossava una larga camicia ingrigita e macchiata di fango, e teneva una mano in avanti come per difendersi. Martine vide quattro uomini avvicinarsi a Guy e il loro tono di voce non era per nulla amichevole. La ragazza corse verso la porta.

    “Mia figlia è morta per colpa dello sceriffo! Non abbiamo altro denaro! Voi l'avete uccisa!”
    Un giovane stringeva un bastone di legno nella mano, il volto paonazzo dalla rabbia. Gli altri intorno a lui annuivano, stringendo a loro volta delle armi improvvisate e aggiungendo frasi d'odio sullo sceriffo.
    Guy rimaneva immobile, guardandoli uno ad uno negli occhi. Aveva paura. Lo avevano già spinto nel fango e presto lo avrebbero picchiato. Ma non era questo a spaventarlo. Erano gli sguardi di rabbia e disperazione a ferirlo.
    Cosa c'entro con il loro dolore? Cosa ho fatto per meritarmi questo? Sono stato io? Chi sono io...
    Un bastone calò rapido, colpendolo al fianco. Guy urlò e si strinse il braccio, indietreggiando.
    “Io non... io non...” borbottava, mentre i contadini lo accerchiavano e a turno sfogavano la propria rabbia sull'uomo indifeso.
    Un urlo interruppe la rapida successione di bastonate e Guy, ormai rannicchiato su sé stesso, aprì gli occhi per guardarsi intorno. Vedeva solo una donna di spalle, l'orlo della veste che gli sfiorava le mani.
    “Lasciatelo stare! Non azzardatevi ad avvicinarvi a lui!” La voce della donna era acuta e tremante, e per qualche istante i contadini rimasero immobili.
    “Spostati ragazza, stiamo solo facendo giustizia” spiegò il più giovane, stringendo sicuro il proprio bastone.
    “Non ti avvicinare o sarò costretta ad usarlo!”
    Guy aveva riconosciuto la voce di Martine e, mentre cercava di rimettersi in piedi, notò che la giovane puntava un piccolo pugnale in direzione degli assalitori.
    “Ragazza, stai difendendo un criminale ed un assassino. Spostati o saremo costretti a farti del male.”
    Criminale? Assassino?
    Quelle parole ferirono Guy più forte delle bastonate, e l'uomo si chiese quanto ci fosse di vero in tutto ciò. Le immagini sfuocate che credeva essere incubi terribili erano in realtà ricordi del suo passato?
    “No, spostatevi voi. Mi sto trattenendo anche troppo. Ancora un altro passo e...”
    “FERMI!”
    La voce richiamò l'attenzione di tutti verso l'ingresso della casa. Henry Trent stringeva una balestra tra le mani, senza però puntarla contro nessuno ma tenendola bassa.
    “Non tollero atteggiamenti simili nelle mie terre. Voi” disse, rivolgendosi ai contadini. “Tornate al lavoro e lasciate stare i miei ospiti.”
    “Ma signore... questi è Gisborne! Il braccio destro dello sceriffo!” protestò il giovane padre che aveva perso la figlia.
    Henry attraversò il cortile senza fretta, la balestra nella mano che oscillava al fianco ad ogni passo. Si avvicinò al contadino, sovrastandolo senza problemi e fissandolo intensamente. Il giovane gettò il bastone a terra e si allontanò rapidamente, seguito dagli altri contadini. Il padrone di casa li seguì con lo sguardo fino a che non furono abbastanza lontani, poi si volse verso i propri ospiti.
    “Vi chiedo perdono, ma credo comprenderete il loro malcontento. Spero non siate ferito” aggiunse, rivolto a Guy. L'uomo, che si massaggiava le braccia, scosse la testa.
    “E spero non dobbiate più farne mostra nelle mie terre” disse infine, indicando il pugnale nelle mani di Martine.
    “Vi ringrazio, signore. Ma state tranquillo: vi libereremo presto della nostra scomoda presenza.”
    Henry sorrise tristemente e, accennando un inchino con la testa, si allontanò, rientrando in casa.
    Martine sbuffò rabbiosa, imprecando contro lo sceriffo, prima di rivolgere le proprie attenzioni a Guy.
    “Stai bene? Guarda qui... dopo tutta la fatica per rimetterti in forze... stupidi campagnoli! Fammi vedere la testa. Bene, la ferita non sembra essere peggiorata. Ma guarda qua, stanno già comparendo i lividi...”
    Guy si lasciava toccare dalle piccole mani della giovane, incurante del dolore che pulsava sulle braccia e sulla schiena, le parole dei contadini che ancora echeggiavano nelle orecchie.

    Martine lo aveva fatto salire nella propria stanza e aveva chiuso la porta a chiave. Avrebbero lasciato quella casa il giorno stesso.
    Henry era stato gentile, così come sua moglie Rose; ma era chiaro che entrambi condividevano l'idea dei contadini e gli ospiti scomodi non avevano alcuna garanzia di sopravvivere a lungo lì dentro.
    “Ci sono degli abiti da uomo nel baule, dovrebbero andarti bene. Prima di andarcene proverò a recuperare le tue cose nella stanza di sotto, ma farai bene a cambiarti alla svelta ed indossare qualcosa di asciutto e pulito.”
    Martine infilò degli abiti di Rose nella sacca, nascondendovi in mezzo il proprio diario. Si sentiva in colpa nell'appropriarsi delle cose altrui, anche se avrebbe lasciato comunque del denaro come ringraziamento. Afferrò anche gli abiti di Henry e li pigiò nella sacca.
    “Guy, sbrigati! Hai bisogno di aiuto? Stai male?”
    L'uomo se ne stava immobile a fissare il pavimento, incurante del fango che gli imbrattava faccia e abiti. Alzò lo sguardo e fissò la giovane.
    “Sono... un assassino?”
    Martine sussultò, colpita da quella domanda. Le accuse che i contadini avevano rivolto a Guy dovevano averlo colpito molto più di quanto pensasse. Dopotutto, l'uomo aveva perso la memoria e tutta la rabbia che lo circondava non doveva essere facile da assimilare.
    “Ne parleremo una volta usciti di qui” rispose la giovane, chiudendo a fatica la sacca.
    “No. Adesso.”
    Il tono di Guy la fece rabbrividire. Per un istante le sembrò l'uomo freddo che l'aveva accolta in malo modo a Nottingham pochi giorni prima.
    Stanca per l'emozione appena provata, per le fatiche del giorno prima e per tutto lo stress accumulato, Martine decise di dire la verità. Si sedette sul letto e fissò seria l'uomo.
    “Ti chiami Guy di Gisborne. Sei il braccio destro dello sceriffo o, meglio, il suo schiavetto tuttofare. Non ti conosco da abbastanza tempo per fare nomi, ma devi aver ucciso e fatto del male a molta gente nella tua vita. Ti odiano, vorrebbero vederti morto e a te non interessa altro che acquisire una terra che sia solo tua, sposare una donna che non ti ama ed uccidere un uomo la cui colpa è quella di servire fedelmente e giustamente Re Riccardo. Questo sei tu.”
    Era stata fredda e diretta, e si stupì della propria crudeltà. Il cuore batteva forte e delle lacrime erano pronte a sgorgare da un momento all'altro.
    Guy era rimasto immobile, senza mai abbassare lo sguardo e assimilando ogni singola parola. Il silenzio scese nella stanza, e Martine riusciva a sentire le voci dei Trent che discutevano al piano di sotto. Dovevano andarsene. Subito.
    “Guy, scusami... non volevo... ma noi dobbiamo andare...”
    “Grazie.”
    Martine rimase spiazzata da quella singola parola. Lo aveva appena descritto come un mostro e lui la ringraziava? Le lacrime presero a scendere copiose e la giovane cercò di fermarle, asciugandosi con la manica del vestito e tirando su col naso.
    Guy si avvicinò e la strinse a sé, provocando ancora più spasmi e lacrime nella giovane.
    “Sono una stupida piagnona! Ma sono spaventata, ho paura. Tanta paura.”
    “Di me?” chiese in un sussurro.
    Martine sentiva che anche il cuore di Guy batteva veloce e la sua stretta non era ferma. Tremava.
    “A volte... sì... ho paura della parte di te che non conosco...” confessò, stupendosi della sincerità delle parole che uscivano a stento tra un singhiozzo e l'altro.
    “Vorrei potermi scusare per quella parte di me che ti spaventa, ma purtroppo non so chi sia. Non conosco questo Gisborne dalle mani sporche di sangue e spero di non doverlo conoscere mai. Ho paura anch'io, ma di quello che non so di aver fatto. Ho paura di quello che dovrò fare per non essere colui che tutti temono. Ma ti giuro che nessun male ti verrà mai fatto da me. Te lo giuro. Chiunque io sia.”
    Martine si commosse a quelle parole e pianse ancora qualche lacrima, prima che Guy gliele asciugasse con le proprie mani. Le sorrise, le labbra tremanti e gli occhi lucidi che la fissavano, ansioso di sapere come lei aveva preso quelle parole.
    La giovane non sapeva che dire. Era come se avesse davanti una persona diversa, uno sconosciuto dolce e premuroso. Non aveva mai dubitato del fatto che Guy possedesse un cuore in grado di amare, ma prima della perdita della memoria c'era sempre stata un ombra ad oscurare i veri sentimenti dell'uomo. Se era stata in grado di innamorarsi della versione fredda e misteriosa di Guy, ora il cuore le si scioglieva di fronte a quella dimostrazione di affetto.
    “Io ti conosco e so che non potresti farmi del male.”
    L'uomo sorrise e sembrò sollevato. Le accarezzò le guance umide dalle lacrime e le posò un bacio sulla fronte.
    “Mi cambio e poi possiamo andare.”
    “Credi di potercela fare?”
    “A cambiarmi? Ho perso la memoria, non l'uso delle braccia.”
    Martine avrebbe voluto tirargli un pugno amichevole sulla spalla, ma si trattenne: Guy era stato picchiato abbastanza per quel giorno.
    L'uomo cominciò a spogliarsi, gettando gli abiti sporchi di fango sul pavimento. Stava già slacciando i pantaloni quando la giovane, arrossendo, quasi inciampò per dargli le spalle.
    “Hai perso anche il senso del pudore?”
    “Ti vergogni a vedermi nudo? Pensavo non ci fossero problemi.”
    “Santo cielo, Guy!” esclamò imbarazzata la giovane.
    Sentì che l'uomo si avvicinava a lei e si chiese cosa passasse per la testa di Guy.
    “Avrò perso la memoria... ma ho certi ricordi di te... di noi. E' tutto molto confuso, ma ricordo la tua pelle sulla mia...” e le sfiorò la schiena, facendola sussultare.
    “Vado a recuperare le tue cose!”
    Martine corse via, quasi inciampando sugli abiti sporchi sparsi sul pavimento. Lo fissò imbarazzata qualche istante, prima di chiudere la porta dietro di sé. Guy rise e, dolorante, finì di cambiarsi gli abiti, sciacquandosi via il fango alla ben e meglio.
     
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  4. Nim
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    L'umidità le entrava fin dentro le ossa e a poco servì stringere maggiormente il mantello. Aveva freddo e non ne poteva più di quel vento che le soffiava dritto in volto, del fango che le entrava nelle scarpe e della pioggia che non li aveva mai veramente abbandonati. Il sole faceva capolino per pochi istanti prima di sparire dietro pesanti nuvoloni scuri, e la notte scendeva in fretta, portando altro vento e altra dannatissima pioggia.
    Martine non fece altro che lamentarsi per tutto il tempo, battendo i denti e maledendo Imhotep, la daga e lo sceriffo. Aveva la schiena a pezzi e la vista di una locanda alla fine della strada le sollevò un po' l'umore. Il buio avvolgeva la campagna inglese da qualche ora, ed il timore di incontrare dei briganti o di morire assiderati si era fatto pressante.
    “Ci fermeremo là per la notte. Non ho molto denaro ma forse riuscirò a convincere l'oste ad accettare un vecchio anello d'oro”. Lo portava al dito da anni, non ricordava ormai più da quanto. Aveva una piccola pietruzza incastonata, e qualche decorazione floreale tutt'intorno.
    “Meglio se lasci parlare me” disse Guy, che non aveva mai aperto bocca dalla loro fuga da casa Trent. Martine aveva più volte cercato di stimolare una conversazione, ma l'uomo sembrava immerso in pensieri profondi. Forse stava cercando di ricollegare i pochi ricordi che affollavano la sua mente, o semplicemente assimilando il fatto che nel suo passato c'erano solo morte e solitudine.
    “Per quale motivo? Posso cavarmela benissimo da sola” rispose Martine, la voce tremante per il freddo e il fiatone. La visione della locanda le aveva dato le forze necessarie per affrettare il passo.
    “Beh sei una donna. Io sono un uomo” spiegò Guy.
    “E con questo? Non farmi iniziare una discussione sulla discriminazione femminile perché non mi pare proprio il caso. In un altro momento avrei accettato la tua gentile proposta, ma preferisco che nessuno ti riconosca”.
    Martine era stata dura e, sebbene fosse buio, vide il volto di Guy contrarsi. L'uomo non disse nulla. Si calò meglio il cappuccio sul capo e accelerò il passo.
    “Guy, hey! Aspetta!” protestò Martine, correndo e imbrattandosi ancora di più di fango.

    L'aria sapeva di cipolle e muffa, ma almeno lì dentro era asciutto. Anzi, il clima era torrido. Un enorme camino occupava gran parte della sala, il fuoco talmente intenso che bastava ad illuminare tutto l'ambiente.
    I tavoli erano quasi tutti pieni ed il rumore assordante. Prendevano posto semplici taglialegna e ricchi cavalieri, accompagnati da eleganti signore o rozze baldracche. Tutti bevevano, mangiavano e ridevano. Era in corso un qualche tipo di gioco al tavolo al centro della sala, e ad ogni vincita si sollevavano delle grida di gioia. Chi perdeva, invece, cominciava a scazzottarsi, per poi cadere a terra privo di sensi. Si capiva che erano tutti ubriachi.
    Martine calò subito il cappuccio, sentendosi mancare il respiro. Una donna al bancone la stava osservando, come a chiederle di farsi avanti. Martine si avvicinò, evitando di farsi travolgere da un giovane che inseguiva una cameriera carica di boccali di birra scura.
    “Avete stanze libere?” chiese, quasi urlando.
    “Tutto pieno. C'è la fiera a York, non troverete posto da nessuna parte”. La donna era corpulenta, dalle guance piene e rosse, e dai piccoli occhi porcini. I denti erano sporchi ma il sorriso non sembrava cattivo.
    “Ci basta anche una panca davanti al fuoco. Possiamo pagare”. Erano talmente stanchi e bagnati che avrebbero potuto dormire in piedi, proprio lì, davanti al bancone.
    “Le panche sono tutte occupate per la notte, ma ho spazio nella stalla. Se non vi disturba la puzza del letame. Posso darvi qualche coperta, ma vi costerà qualcosa in più”. Chiaramente la locandiera cercava di guadagnare ogni centesimo possibile che la fiera le stava portando.
    “Ho del denaro. E un anello d'oro. Penso bastino per le coperte e un pasto caldo”. Martine non ne era sicura, ma non voleva darlo a vedere alla donna. La locandiera afferrò l'anello, lo morse con i pochi denti buoni rimasti e raccolse le monete dal banco. Fissò attentamente Martine, poi sorrise e urlò qualcosa alle sue spalle. Comparve una ragazza, sudata e trafelata, una versione in miniatura della locandiera.
    “Nel magazzino della paglia. Sistema i cavalli e poi lascia loro la chiave. Coperte, pietre, stufato e birra”. Poi si rivolse a Martine. “Avete pagato bene e mi sembrate una brava persona. Potete restare anche due notti, ma domani avrò bisogno del magazzino”.
    Martine ringraziò, quasi commossa, e seguì la ragazza, che sembrava meno contenta della locandiera nel dare il benvenuto a due nuovi clienti.

    La stalla era molto grande, ed ospitava almeno una decina di cavalli, oltre a cinque o sei muli, una mucca, due capre ed un numero imprecisato di galline. Appena la ragazza aprì la pesante porta di legno, un topolino scappò nella sala grande, inseguito da un grosso gatto che per poco non li fece cadere.
    “Avete a disposizione un paio di pietre, che vi porterò dopo la cena. Niente fuochi, ma non dovreste aver freddo. Ecco le coperte”.
    Martine annuì, afferrando due pesanti rotoli di stoffa ruvida e capendo solo in quel momento a cosa servissero le pietre. Sarebbero state scaldate nel fuoco e lasciate accanto al loro giaciglio, a mo' di stufa. Il pensiero di un letto caldo la fece sbadigliare.
    Il magazzino si trovava in fondo alla stalla. Non aveva delle vere e proprie pareti, solo una porta e delle assi di legno. Era colmo di paglia e la ragazza si mise a raccoglierla col forcone per sfamare i cavalli, brontolando ed imprecando contro la madre, che ormai era chiaro essere la locandiera.
    “Ci è andata bene” commentò Martine, sottovoce, rimanendo in piedi a fissare la ragazza che andava avanti ed indietro.
    Guy era stato una presenza silenziosa alle sue spalle per tutto il tempo. E restò tale finché non rimasero soli. Martine chiuse la porta del magazzino, stese una delle coperte sulla paglia e fece per lanciarcisi sopra, ma una mano l'afferrò per il braccio.
    “Farai meglio a cambiarti o bagnerai anche quelle”.
    “Hai ragione. Che stupida” e rise. Era stanca, aveva fame e non aveva le forze per spogliarsi, ma doveva farlo o avrebbe rischiato una polmonite. Ma era tutto più facile a dirsi che a farsi. Il mantello cadde a terra pesante, ma il leggero abito di Rose era appiccicato alla pelle, ed i nodi dei lacci si erano come incollati tra loro. Le dita gelate di Martine non riuscivano a sciogliere quegli intrecci umidi e pensare di sfilare l'abito dalla testa era un'idea inutile. Guardò Guy e si morse il labbro.
    “Mi... mi daresti un mano?” chiese, imbarazzata.
    L'uomo si era già tolto mantello e giubba, appoggiandoli alle travi di legno. Fissò Martine, serio, poi si avvicinò. Sfregò le mani e ci soffiò dentro un po' di alito caldo, prima di iniziare ad armeggiare con i lacci. Le dita erano gonfie e rosse, e faticavano a districare i piccoli nodi.
    Martine cercava di rimanere immobile, ma aveva spasmi lungo tutto il corpo. Non erano solo per il freddo. Guy le era così vicino e le sue mani continuavano a sfiorarla, facendola sussultare. Provò a guardare altrove, concentrandosi sui cavalli poco distanti che mangiavano tranquilli. Eppure lo sguardo tornava alle mani di Guy e al suo torace che la camicia slacciata lasciava intravedere. Sentiva il suo respiro vicino, calmo, regolare. Quasi la infastidì e si ritrovò a sbuffare.
    “Ho quasi finito” furono le parole di Guy, come a volersi scusare di essere andato troppo lento. Martine si sentì in colpa e stava per aggiungere qualcosa, quando l'ultimo nodo fu sciolto e il vestito scese pesante lungo il suo corpo. Sebbene indossasse una specie di sottoveste, si coprì il seno che si intravedeva attraverso la stoffa umida. Guy rimase a fissarla per quello che a Martine sembrò un'eternità, poi si allontanò, dandole le spalle.
    “Non ti guardo, tranquilla. Ho capito che non vuoi che ti guardi”.
    “Ma no, non è... non è...”. Non era cosa? Non era vero che si vergognava? Che lo sguardo dell'uomo la metteva in imbarazzo? Dopotutto Guy l'aveva vista nuda, ed anche allora il tutto era nato a causa di lacci e nodi ingarbugliati. Sembravano passati mesi, eppure il ricordo di quel gesto avventato la fece arrossire. L'aveva ingannato e si era offerta a lui solo per ottenere protezione e aiuto. Era stato sesso, semplicemente sesso. Piacevole, rude, appagante, ma non c'era mai stato amore.
    Ora Martine osservava lo stesso uomo sfilarsi la camicia, mostrando una schiena piena di lividi. Le bastonate ricevute dai contadini erano strisce spesse e violacee, giallastre sui bordi, e in qualche livido si intravedeva del sangue rappreso. Martine si avvicinò e appoggiò la mano sulla schiena di Guy. L'uomo sussultò nel sentire il tocco gelido ed inaspettato, ma rimase immobile. La mano di lei sfiorò la pelle, premendo delicatamente sui lividi, come a controllare che non ci fossero ossa rotte.
    “Sto bene” furono le parole di Guy, mentre appoggiava la camicia ad asciugare assieme al mantello e alla giubba.
    “C'è dell'acqua nella stalla, posso lavarti via il fango e pulire le ferite. Non ho più controllato quella sulla testa e non vorrei si infettasse”. La mano che accarezzava la schiena si allontanò, finendo a giocherellare nervosa con un laccio della sottoveste.
    Guy si girò e le passò accanto, chinandosi a raccogliere gli abiti sparsi sulla paglia. Li stese accanto ai propri, togliendo polvere e grumi di fango. Era come se la stesse ignorando, quindi Martine decise di non aspettare il suo consenso. Infreddolita e con addosso solo la sottoveste e gli stivali umidi attraversò la stalla. Prese un secchio e lo riempì di acqua gelida, affondandolo nell'abbeveratoio dei cavalli. Quasi inciampò su un paio di galline, che corsero via facendo talmente tanto baccano da spaventare le capre, che la inseguirono fino al magazzino. Chiuse la porta dietro di sé, ansimando e spandendo acqua dappertutto.
    “Cerca di lasciare questo posto asciutto” l'ammonì Guy. S'era seduto sulla coperta e stava sfilando a fatica gli stivali pieni di fango. Aveva i piedi pallidi e violacei. Provo a massaggiarli per scaldarli; gesto che dovette risultare piuttosto doloroso, vista l'espressione corrucciata del suo viso.
    “E' fredda. Non penso sia il caso di usarla sulla ferita, ma posso toglierti la sporcizia di dosso”. Martine si sedette sulla coperta, poco distante dalla schiena nuda dell'uomo. Immerse nel secchio la sua sciarpa, strizzandola e tenendola sollevata a mezz'aria. Guy non sembrò badarle, rimanendo concentrato sugli stivali e tentando di pulirli con un rametto di legno. Era come se fosse arrabbiato con lei... ma per quale motivo? Decise che non le interessava e che lo avrebbe pulito. Appoggiò la sciarpa umida sulla schiena, facendo distogliere Guy dagli stivali. Lo lavò lentamente, passando leggera sulle ferite e i lividi, togliendo la sporcizia dalla sua pelle e rendendo torbida l'acqua del secchio. Sebbene Guy avesse un'ampia schiena, Martine si rese conto che presto o tardi doveva lavarlo anche dall'altra parte, e l'imbarazzo torno a prendere il sopravvento. Si rimise in piedi, spostò gli stivali e si sedette di fronte a lui. Immerse nuovamente la sciarpa e cominciò a passarla sulle spalle, indugiando a lungo prima di passare al collo e scendere lungo il torace. Non osava staccare gli occhi dalla sciarpa, ma sentiva che Guy la stava fissando.
    “Mi hai mentito”.
    La mano di Martine si fermò, e dovette alzare lo sguardo ed incrociare quello di lui, serio e profondo.
    “Mentito? Come... quando...” chiese, confusa.
    “Ricordi che tornano. Poco chiari. Parole confuse. Frasi sul tuo essere una spia, sul tuo avermi sempre mentito”. Fece una pausa, senza mai smettere di fissarla. Martine deglutì, comprendendo ora a cosa si riferisse. Aveva ragione: gli aveva mentito al castello, più e più volte. Mentito per salvarsi la vita, mai per il puro piacere di farlo soffrire. Glielo aveva spiegato e al tempo sembrava averlo capito, ma la perdita di memoria doveva averlo lasciato con pochi frammenti di ricordi altamente confusi e disordinati.
    Martine tornò a pulire la pelle sporca di sudore e fango, lavando prima un braccio e poi l'altro. Guy però non voleva lasciare quel discorso in sospeso. Le tolse la sciarpa dalla mano, gettandola nel secchio.
    “E' vero? Mi hai mentito? Chi sei?”
    Domande pesanti e difficili che la fecero sospirare. Raccolse le gambe al petto per farsi scudo. Aveva ancora più freddo di prima, come se la sottoveste umida si fosse ghiacciata all'improvviso. Cercò le parole, ma nessuna sembrava quella giusta. Guy attese, rendendo il silenzio tra loro insopportabile.
    “Prima che tu perdessi la memoria ti avevo spiegato chi io fossi realmente. Io... non sono di queste parti. Per ora devi farti bastare che vengo da molto, molto lontano. E sì, è vero: ti ho mentito. Ho mentito su molte cose per non morire, ma non solo a te. Anche a me stessa. Mi son detta che stavo agendo per il bene di tutti, quando in realtà non ho fatto altro che ferire sia me che te”.
    Alzò lo sguardo e vide che Guy la fissava attento, le sopracciglia corrugate. Chiaramente non capiva e non sarebbe stato facile spiegarli tutto quello che era successo.
    Martine tornò a fissarsi le punte dei piedi, imbarazzata da quello che stava per dire.
    “A casa Trent, quando hai detto di avere certi ricordi di noi due... sì, insomma... i nostri corpi... senza vestiti... ecco... è vero. C'è stata quella unica volta al castello di Nottingham dove, per proteggere me stessa ed i miei amici, io... te... oh cielo, come mi vergogno!” e affondò la testa tra il petto e le ginocchia.
    Per un po' gli unici rumori furono i versi degli animali e, in lontananza, le risate dei clienti della locanda. Martine rimase nascosta, sentendo le guance farsi bollenti e delle lacrime pronte a scenderle dagli occhi.
    “Continua. Ti prego”. Guy le parlò piano, come per non spaventarla, anche se il tono non esprimeva compassione. Fortunatamente non sembrava nemmeno essere arrabbiato.
    Martine rialzò un poco la testa, tirò su col naso e si schiarì la gola.
    “Mi sono offerta a te come una donna di facili costumi, e non hai sospettato nulla. Ripetevo a me stessa che lo facevo per salvarmi la pelle, ma in realtà il peso di quel gesto mi sta colpendo solo adesso. Sono stata una sgualdrina! E ti ho preso in giro! Ti ho usato e per causa mia hai sofferto. E continui a soffrire, visto che hai perso la memoria e ti hanno riempito di botte!”.
    Ormai i singhiozzi rompevano la voce della giovane, rendendo il suo racconto quasi buffo. Ma Guy non rideva: continuava a tenere lo sguardo fisso su di lei.
    “Quindi... quando mi hai guardata, poco fa... mi sono vergognata. Mi sono sentita colpevole. Sporca. Stupida. Io non volevo farti del male, sul serio”. La voce era stridula, mentre le lacrime scendevano copiose lungo le guance. “Io volevo solo... tornare a casa. Aveva paura di te, dello sceriffo, delle guardie. Questo non è il mio mondo, lo capisci? Ho paura...” sussurrò, mentre un groppo alla gola le impediva di continuare. Prese un forte respiro, si asciugò il viso con un pezzo di stoffa sporco e fissò Guy. Le ultime parole erano le più difficili da dire, ma doveva farlo. Il peso era diventato insopportabile.
    “Non so se sia stata la paura o la mia innata stupidità, ma più tempo passavo con te, più mi affezionavo. Era come se... il terrore causato da te e dalle voci che circolavano venisse meno, come se mi fossi creata una grande bugia per proteggermi. In pratica ti amavo... per paura. Ma dopo l''incidente, quando giacevi tra la vita e la morte, mi sono resa conto di tenere veramente a te. Potevo fuggire e lasciarti sulla strada. Riunirmi ai miei amici e tornarmene a casa. Ma sono rimasta accanto a te, ti ho curato e protetto. Per questo poco fa mi sono coperta, per questo me ne sto qua raggomitolata su me stessa. Perché ho paura di essermi innamorata di te, e mi vergogno per tutto quello che ti ho fatto”. Martine si prese il volto tra le mani. Se non avesse indossato solo una sottoveste umida se ne sarebbe andata via dal magazzino.
    Quella rivelazione improvvisa aveva sorpreso pure lei. Amava Guy! Come era possibile? Quando era accaduto? Era sicura non si trattasse ancora di paura per quel mondo ostile e pericoloso? O magari di una cotta? Quante volte erano bastati degli occhi chiari e pettorali scolpiti per conquistarla, lasciandole poi l'amaro in bocca alla fine di quelle insulse storielle senza amore? Forse si stava sbagliando anche questa volta, forse era l'ennesima figura da stupida e triste ragazza sola.
    Un fruscio, qualcosa che si muoveva, un calore improvviso. Guy s'era inginocchiato di fronte a lei e la stava abbracciando. La sua pelle era fresca sul viso ma dopo pochi istanti emanava un tepore piacevole. Non aveva più lacrime e rimase in silenzio, immobile, stretta tra le sue braccia.
    Guy le accarezzò la testa, scivolando sui lunghi capelli castani arruffati dall'umidità e lentamente la fece sciogliere da quella posizione di difesa. Martine si lasciò andare, appoggiandosi completamente a lui, come una bambina in braccio al padre. Lui continuò a stringerla a sé, cercando di calmare i brividi che la scuotevano.
    “Non so... cosa dire. Faccio fatica a capire se sentirmi in colpa nei tuoi confronti o se invece dovrei odiarti per le menzogne che mi hai raccontato. Non so cosa provavo per te prima dell'incidente. Ho ricordi molto confusi ma sono certo di non averti mai voluto fare veramente del male. Eppure, dopo quello che hai detto, scopro di averti fatta soffrire”.
    “Non è vero Guy! Non hai fatto nulla, ho incasinato tutto da sola!” esclamò Martine, sollevandosi e fissandolo. Notò che la sua espressione era cambiata. Sembrava quasi stesse sorridendo con gli occhi, ma forse aveva solo la vista annebbiata dal troppo piangere.
    “Ho sentito quello che pensano di me. Mi hai detto tu stessa chi sono. Un mostro senza cuore, capace di uccidere senza problemi, odiato da tutti e amato da nessuno. E adesso tu mi confessi di provare amore nei miei confronti. Secondo te come dovrei sentirmi?”
    Martine si schiarì la voce. “Arrabbiato?”
    “Spaventato. Ho paura. Non so come dovrei reagire. Cosa avrei fatto giorni fa, prima dell'incidente? Ti avrei presa e rinchiusa in camera da letto per il mio divertimento? Ti avrei sposata e resa felice? Cosa avrebbe fatto Guy di Gisborne?”
    “Non lo so...” sussurrò Martine, confusa. Non aveva le risposte a quelle domande e il fatto che Guy fosse così combattuto la intristiva.
    “Ricordo... ricordo tanta tristezza. Amavo qualcuno, ne sono certo. Una donna dai capelli scuri, proprio come i tuoi. Occhi da cerbiatta, carattere forte. Eppure... quei ricordi fanno male e non capisco perché”.
    “Marian” disse Martine. “Si chiama Marian. La figlia dell'ex sceriffo di Nottingham”. Perché diavolo stavano parlando di lei? Possibile che anche un Guy senza memoria non facesse altro che pensare a quella donna? Martine s'incupì, sentendosi a disagio tra le braccia dell'uomo al quale aveva appena dichiarato il proprio amore. Non c'era speranza contro un sentimento così grande e questo la ferì profondamente, facendole capire ancora una volta quanto tenesse veramente a Guy. Voleva alzarsi, andarsene da quell'abbraccio e bere tutta la notte per dimenticare. L'ennesima reazione stupida da parte sua, ma che altro poteva fare?
    Dal canto suo Guy non aveva più aperto bocca. Il respiro s'era fatto accelerato e Martine lo sentiva tremare. Alzò lo sguardo e lo vide paralizzato a fissare il vuoto.
    “Guy... Guy, che succede?”
    “Marian... lo sceriffo... Hood... io... ricordo... ricordo... aaaah!”
    Un urlo improvviso e Guy si lasciò cadere lungo disteso sulla coperta, tenendosi la testa tra le mani. Gemeva e urlava, agitandosi come se stesse andando a fuoco. Martine si piegò su di lui, preoccupata e non sapendo che fare.
    “La testa! AH!” urlava, impedendo alla ragazza di aiutarlo e spingendola via con rabbia.
    “Guy! Aspetta! Guy, lascia che... Guy! GUY!”
    Martine provò più e più volte, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo. Ogni volta le forti mani dell'uomo l'allontanavano, facendola rotolare sulla paglia. Cadendo urtò il secchio, che per poco non svuotò il suo contenuto sul pavimento. Ma questo diede a Martine un'idea.
    “Forse non ti farà bene, ma...” e afferrò il secchio, lanciandogli addosso l'acqua gelida. Guy si fermò, lanciando un ultimo urlo soffocato, fissandola con rabbia. Martine temette che volesse ucciderla e si avvicinò alla porta del magazzino, pronta a scappare. Guy si mise in piedi, gocciolando ovunque e ansimando come se avesse corso per miglia e miglia.
    “Tu...” sussurrò, fissandola con rabbia. Martine aveva già aperto la porta, i piedi che si spostavano lentamente al di fuori del magazzino.
    “Guy, calmati. Scusa, non volevo farlo. Non farmi del male... non farmi del male”
    L'uomo la fissò, lo sguardo confuso e le labbra piegate in una smorfia di dolore. Allungò una mano in direzione della ragazza, poi cadde a terra privo di sensi.
    “GUY!” urlò Martine, correndo al suo capezzale. “GUY! Che ti succede? Hey! Ti prego, non morire, non puoi morire, non puoi!”
    Si chinò su di lui, appoggiando l'orecchio sulla pelle umida del torace: il cuore batteva forte e veloce. Era semplicemente svenuto.
    “Maledetto bastardo, perché devi spaventarmi in questo modo? Stupido, stupido, stupido!” e si mise di nuovo a piangere, strattonando e stringendo tra le mani la camicia di Guy.

    Lo stufato era bollente e dovette bere un altro sorso di quella birra scura e spessa. Nel grasso galleggiava ancora qualche pezzo di verdura, oltre a delle vecchie croste di pane. Martine spazzolò quanto rimaneva nella ciotola senza quasi prendere respiro, se non per bere e pulirsi la bocca. La sala era ancora affollata, ma i piantagrane russavano lungo distesi sul pavimento. Si potevano sentire ondate di puzzo di birra uscire dalle loro bocche sporche di schiuma secca. Martine ruttò, incurante della buona educazione e finalmente sazia. La testa le girava, anche se non poteva dirsi ubriaca dopo soli due boccali di birra. Contando che lo stomaco era pieno, l'effetto dell'alcool doveva essere stato sicuramente smorzato. Sono solo molto stanca, si ripeteva, mentre leccava l'ultima goccia di liquido scuro dal boccale. Sospirò, fissando le fiamme nel caminetto, mentre una delle cameriere puliva il tavolo. Le palpebre si facevano via via più pesanti, ed il movimento sinuoso del fuoco unito al suo tepore la stavano gettando lentamente tra le braccia di Morfeo.
    “Hey tesoro, se sei stanca vieni qui con me”.
    Martine aprì gli occhi, cercando di mettere a fuoco la fonte della voce. Un ragazzo dai capelli di un biondo così chiaro da far ingelosire Barbie e Ken messi assieme la stava strattonando per il vestito. Se ne stava disteso su di una coperta, suo unico materasso sulle pietre fredde del pavimento.
    “Lasciami stare” borbottò Martine, appoggiando le mani sul tavolo e provando ad alzarsi. Si sentiva instabile, solo ora veramente cosciente che quella birra scura non era poi così leggera come sembrava.
    Lo sconosciuto la strattonò con maggiore forza, facendola cadere a terra. Martine si divincolò goffamente, mentre un altro rutto le liberava lo stomaco, ed il ragazzo rise e cominciò a leccarle il collo.
    “Smettila... che schifo... bleah” esclamò disgustata, senza però riuscire a rialzarsi ma rotolando sulle pietre dure e fredde. L'adrenalina cercava di combattere la nebbia che la birra le aveva procurato nella mente, e un calcio andò a segno. Il ragazzo imprecò e l'afferrò per le gambe, facendola strisciare sul pavimento. Martine urlò, mentre le unghie grattavano le pietre tentando di rimanerci aggrappata.
    “Lascia... lasciami... non voglio...”. Senza fiato e con mani e ginocchia sanguinanti, continuò a scalciare, facendo cadere alcune sedie e colpendo gli stinchi di qualcuno.
    S'era raggruppata una folla di persone tutt'intorno, che ridevano ed incitavano il ragazzo con frasi sconce e volgari. La locandiera cercò di farsi strada, ma la grossa mole e la barriera di uomini ubriachi non le permettevano di avanzare in difesa della giovane cliente.
    “Toglietevi o vi faccio buttare fuori dalle guardie! Toglietevi subito!” sbraitava la padrona di casa, menando ceffoni a destra e a manca.
    “Hey scrofa, ho pagato per bere e divertirmi, non per lavorare. Quindi fatti gli affaracci tuoi, hahahahaha!”. Un uomo con indosso una cotta di maglia ed uno stemma la spinse via, facendola cadere a terra. Il suo compare, anch'egli una guardia dello sceriffo, rise fino a piegarsi in due, tanto che l'elmo gli scivolò dalla testa. “Guarda come rotola, come una botte!” urlò, barcollando.
    La locandiera si rimise in piedi a fatica, aiutata anche dalla figlia. Stava per lanciare un pugno alla guardia, ma la mano le venne immobilizzata a mezz'aria.
    “Mollami subito!!” sbraitò, divincolandosi e pronta a travolgere chiunque la bloccasse.
    “Ogni violenza nei confronti delle guardie dello sceriffo equivale a violenza allo sceriffo stesso, e quindi punibile con la morte”. Lo disse a tono talmente alto che tutti si fermarono, riconoscendo quella voce profonda ed autoritaria. Le guardie si misero sull'attenti, talmente in fretta da urtare il tavolo e far cadere i boccali di birra. Il rumore del vetro infranto zittì anche le ultime risate nella sala.
    Guy di Gisborne lasciò andare la mano della locandiera, che fece un inchino maldestro e scappò dietro il bancone assieme alla figlia. Alcuni dei presenti in sala uscirono dalla porta a gambe levate, mentre la folla che si era creata si disperdeva. Tornarono ai propri tavoli, assumendo un atteggiamento indifferente, anche se le mai tremavano nel sollevare un cucchiaio o un boccale di birra.
    “Signore, pensavamo di incontrarvi a York, come avevate ordinato. Ci siamo fermati a far risposare i cavalli, faceva freddo ed il fango sulla strada... la pioggia...”. La guardia più sobria sudava copiosamente sotto l'elmo, lo sguardo basso a fissare il pavimento. “Non pensavamo che voi...”.
    “Voi non pensate mai. Continuo a chiedermi per quale motivo lo sceriffo si ostini ad assegnarmi delle teste vuote come voi. Ora pagate la locandiera e non fatevi vedere fino a domani”.
    “Ma signore, abbiamo già pagato...”
    Guy lo fulminò con lo sguardo e questo bastò ai due uomini per rendersi subito estremamente generosi nei confronti della loro ospite. La donna accettò il denaro e ringraziò Guy facendogli l'occhiolino, sebbene fosse ancora scossa per l'accaduto.
    Martine se ne stava seduta sulle pietre del pavimento. Il suo aggressore si era subito unito ai traballanti fuggiaschi che avevano pensato bene di darsela a gambe levate. Guy le andò vicino, la prese in braccio e uscì dalla sala, diretto alle stalle. Nessuno osò più ridere e fare baccano, preferendo bisbigliare o mettersi a dormire per evitare qualsiasi tipo di guaio.

    “Hey che succede? Si muove tutto in fretta. Vai piano. Ma quella non era la locandiera? La porta, la porta! Oooh si è aperta da sola, sei anche un mago! Guarda, ci sono tanti cavallini! Attento alla gallina, attento! Chissà dove depone le uova. Profumi di latte. Avrei proprio voglia di latte di capra, ma ho paura che sappia troppo da capra, capisci? Come il formaggio. Ti lascia quel sapore da mucca anche se è di capra... ahio!”
    Martine vide tutto girare, mentre Guy la stendeva sulla paglia. Aveva perso un po' l'equilibrio e la gettò quasi di peso, facendole sbattere la testa. La ragazza rimase stordita per qualche secondo, o almeno così credeva. Quando riaprì gli occhi, Guy non era accanto a lei. Sentiva però la sua voce, come fosse distante miglia e miglia. Non era solo, parlava con una donna, forse la figlia della locandiera. Martine richiuse gli occhi.

    Capra. Profumo di formaggio di capra.
    Martine si mise a sedere, pentendosi subito di averlo fatto così in fretta. La testa le girava ancora e sentiva in bocca un brutto sapore acido. Strinse le dita sulle tempie per massaggiarle, ma dovette smettere all'istante: aveva le unghie distrutte e i polpastrelli pieni di sangue.
    “Ma che cavolo...” si chiese stupita, ricordando piano piano quello che era successo. La birra, il molestatore, la folla, Guy.
    “Guy” sussurrò, rabbrividendo. Alzò lo sguardo e si rese conto solo in quel momento che lui era lì. Stava mangiando del formaggio, appoggiato alla parete di legno del magazzino. Nella ciotola era rimasto anche un uovo sodo e qualche verdura. Un boccale di birra mezzo pieno era appoggiato accanto ai suoi piedi. Martine distolse lo sguardo, nauseata.
    “Pensavo di reggerla bene, ma questa è bella densa e potente. Voi sì che sapete come sballarvi di brutto”. La buttò sul ridere, ma temeva quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
    Sebbene alticcia, lo aveva visto. Aveva visto Guy farsi largo tra la folla, dare ordini alle guardie e ritirarsi senza che nessuno fiatasse. Aveva riconosciuto lo sguardo. Era tornato. Gisborne, il braccio destro dello sceriffo, il terrore della contea, era tornato.
    Guy finì la birra, si pulì le labbra con la manica della camicia e gettò lontano ciotola e boccale. E fissò l'attenzione su Martine.
    “E quindi... ti sei svegliato” constatò la ragazza, non sapendo che altro dire. Poche ore prima lo aveva lasciato svenuto nel magazzino, dopo averlo visto urlare e contorcersi. Era accaduto tutto all'improvviso, come se il solo nominare Marian avesse innescato una reazione violenta e tutti i ricordi di Guy fossero tornati immediatamente al loro posto. L'effetto doveva essere stato terribile, era comprensibile che l'uomo fosse impazzito e crollato al suolo.
    Martine deglutì, sentendo la cena e la birra che premevano per uscire dal suo stomaco. Non voleva vomitare ma aveva bisogno di prendere un po' d'aria. Appoggiò le mani a terra e si diede una piccola spinta, ma il dolore alle dita si unì a quello delle ginocchia, facendola ricadere pesantemente sulla paglia.
    “Guarda qua... che disastro... e che male” brontolò, osservando le sbucciature profonde sulle ginocchia. L'abito pulito ed asciutto era ora pieno di chiazze rossastre, oltre ad essere mezzo strappato in più punti. Con lo sguardo cercò subito la sacca: doveva avere qualche cerotto dentro una delle tasche.
    “Ferma”. Guy non disse altro, ma il tono fermo e deciso la immobilizzò. L'uomo si mise in piedi, non senza fatica, e raccolse un catino vicino alla porta. Martine vide del vapore che si alzava dal pelo dell'acqua. Si sedette di fronte a lei e immerse una pezza pulita, strizzandola poi per bene.
    “Farà male, ma devo pulire le ferite. Se vuoi puoi mordere un pezzo di legno”.
    “Proverò a stringere i denti” rispose, preparandosi al peggio.
    Guy appoggiò la pezza calda sul ginocchio spellato e Martine sussultò, strizzando gli occhi per il dolore. Dovette respirare profondamente per non urlare, anche se Guy fu piuttosto delicato. Andò piano ma premendo sulle ferite per rimuovere sporcizia e sangue rappreso. Quando le ginocchia furono entrambe pulite, le fasciò con della stoffa leggera.
    “Piega un po' il ginocchio e vedi se è troppo stretta. Devi riuscire a camminare”.
    “Sì. Ok. Un po' più larga. Grazie”.
    Martine trovava tutto molto strano. Era come se il ritorno della memoria fosse qualcosa del quale non parlare. Guy era così calmo, mentre le mani si muovevano con delicatezza e precisione. Il silenzio la faceva soffrire anche più del dolore fisico.
    “Tu... stai bene? Voglio dire... è tutto come prima?”
    Non ce la faceva a stare zitta, e dallo sguardo che Guy le lanciò si pentì subito di aver aperto bocca.
    “Devo pulirti anche le dita” fu la sua risposta. Martine annuì. Lui le prese la mano e passò dito per dito con la pezza umida e calda. Faceva meno male rispetto alle ginocchia. Forse perché ormai s'era abituata? Era ancora intontita dalla birra? O perché la vicinanza di Guy la confondeva al punto da farle dimenticare il dolore? Si ritrovò a fissare i suoi occhi, così verdi e profondi. Alcune ciocche di capelli ancora umide gli scendevano sulle guance coperte da un accenno di barba. Le sue mani grandi ma delicate, che ad ogni tocco le mandavano brividi piacevoli per tutto il corpo. Ci rimase male quando finì di pulirle le ferite.
    “Grazie” riuscì a dire, anche se nella mente si affollavano altre domande. Ricorda tutto quanto? Mi odia? Vuole seguire il piano dello sceriffo? Aveva parlato con le guardie, le stesse della carrozza. Sarebbe andato via con loro? L'avrebbe portata con sé?
    Le guardie. La carrozza. Martine scattò all'improvviso.
    “Il fazzoletto! Il dente! Il pezzo della daga! E' qui, sono loro, è la nostra carrozza! Dobbiamo trovarlo, deve essere ancora lì, ne sono certa!”
    Provò a mettersi in piedi e di nuovo ricadde su sé stessa. Imprecò contro la birra e il pavimento del magazzino, mentre rotolava su un fianco e cercava di sollevarsi in qualche modo. Si sentì afferrare per le braccia.
    “Stai ferma. Non urlare”. Guy la stringeva forte, impedendole di muoversi. “Stai seduta. Mi prometti di non provare ad alzarti?”
    Martine annuì e lui la lasciò andare, senza smettere di tenerle lo sguardo addosso. Allungò una mano verso la cintura ancora appesa ad una delle travi. Cercò qualcosa dentro un piccolo borsello di pelle, poi avvicinò la mano verso la ragazza. L'aprì: era il fazzoletto, e al suo interno c'era ancora il dente dello sceriffo. La piccola pietra brillò alla luce della lanterna e Martine pensò fosse la cosa più bella del mondo.
    “Ho riconosciuto lo stemma sulle borse da sella. Ho fatto un giro sul retro e ho trovato la carrozza dello sceriffo. Stava sotto il sedile, incastrato tra le pelli”. Non appena risvegliatosi, Guy s'era reso conto che tutti i ricordi erano tornati al loro posto. S'era alzato, instabile e debole, e aveva vagato per la stalla. La figlia della locandiera stava mungendo la capra e lui era riuscito a farsi dare un bicchiere di latte caldo. Aveva sentito le urla di Martine ed era accorso nella sala.
    “Mentre dormivi ho parlato con le guardie. Dicono di aver superato due tizi sospetti con un mulo, la descrizione di uno di loro corrisponde al tuo amico strano con le treccine. Ho dato l'ordine di preparare la carrozza per domani mattina”.
    “E dove andiamo?” chiese Martine. A quel punto non sapeva più quale Guy avesse di fronte e cosa volesse fare.
    “A York, come ordinato dallo sceriffo”. La risposta fu secca e decisa.
    “Ah. Quindi mi riconsegnerai a lui, una volta tornati a Nottingham?”
    Guy richiuse il fazzoletto e lo mise nella mano di Martine. La osservò ancora qualche istante, prima di rispondere.
    “No. Ora dormi. Devo parlare con la locandiera” e così dicendo si rimise in piedi. Le diede un'ultima occhiata prima di chiudere la porta del magazzino dietro di sé.
    Martine rimase sola nella sua confusione e stordimento. Di positivo c'era che aveva di nuovo tra le mani un pezzo della daga. Era quella la missione, doveva essere quello l'unico pensiero ad occuparle la mente.
    Si distese sulla paglia, sentendo la testa girare. Si coprì alla ben e meglio con l'altra coperta, quella asciutta. C'era un bel tepore, sicuramente merito delle pietre calde con le quali era stata avvolta.
    Chiuse gli occhi e la stanchezza prese il sopravvento. Ma non prima di aver rivolto un ultimo pensiero a Guy.

    Un brusio la risvegliò da un sogno confuso e triste. La pioggia colpiva con violenza il tetto della stalla ed un rombo in lontananza annunciò l'avvicinarsi di un forte temporale. Qualche cavallo nitrì, scalciando e strattonando le briglie.
    Martine rabbrividì e tirò la coperta fino sopra alle orecchie, raggomitolandosi su se stessa. Non era abituata a dormire per terra e, sebbene ci fosse abbastanza paglia da creare un giaciglio comodo, era certa si sarebbe alzata con un terribile mal di schiena, per non parlare dell'emicrania e del raffreddore.
    Lentamente aprì gli occhi, sentendo le palpebre gonfie e pesanti. La prima cosa che vide fu la lanterna appesa alla trave. Era ancora accesa e la luce, anche se flebile e tremolante, le diede subito fastidio. Distolse subito lo sguardo, stropicciandosi il volto e sbadigliando. Poi lo vide.
    Guy era disteso poco distante da lei, anch'egli raggomitolato su se stesso. Giaceva sul fianco, senza coperta né mantello, e doveva avere sicuramente freddo perché tremava nel sonno.
    Sentendosi egoista nello stringere l'unica coperta asciutta, Martine si avvicinò all'uomo e lo accolse sotto il tepore della ruvida stoffa scura. Guy aprì subito gli occhi, che nella tenue luce della lanterna brillavano come due smeraldi.
    “Cosa succede?” chiese con voce roca, sollevando la testa dalla paglia.
    “Pensavo avessi freddo... mi spiace averti svegliato...”
    “Mmm”. Sbadigliò a sua volta e si rimise disteso, chiudendo gli occhi.
    “Guy”
    “Cosa c'è?”
    “Devo chiederti una cosa”.
    “Non puoi aspettare che venga giorno?”
    “Preferirei adesso...”
    Guy sospirò, riaprì gli occhi e li puntò su Martine. “Dimmi”.
    L'atteggiamento freddo e distaccato dell'uomo non l'aiutava, ma almeno si sentiva meno annebbiata dall'alcool della birra. Ci mise comunque qualche secondo a mettere insieme i pensieri.
    “Ora che ti è tornata la memoria, o almeno così mi è parso... beh avevamo un discorso in sospeso, noi due. Quando ho nominato Marian poi tu...”
    “Non voglio sentire quel nome”. La interruppe, guardando altrove.
    Martine ebbe un brivido, ma era decisa ad andare avanti.
    “Perché non vuoi parlare di lei? E chiaro che conta molto per te. Solo nominarla ha fatto tornare tutti i ricordi. E anche quando eri senza memoria lei era nei tuoi pensieri”.
    “Ti sbagli”.
    “No, non mi sbaglio. Era il suo volto che ricordavi, non il mio. L'hai detto tu stesso che ci somigliamo. Tu la ami e nessuno riuscirà a togliertela dalla mente, nemmeno una trave sulla testa o una stupida ingenua come me”.
    “Ho detto che ti sbagli”. La mano di Guy scivolò sotto la coperta e le afferrò il polso.
    “Lasciami”. Martine strattonò il braccio cercando di liberarsi dalla presa. Voleva girarsi e tornare al sogno triste. Cosa stava sognando, poi? Non ricordava. Ma era stata una pessima idea quella di parlare. Ora le veniva da piangere, di nuovo, e per di più aveva fatto arrabbiare Guy. Ne faceva mai una di giusta?
    “Prima dimmi di cosa volevi parlarmi” insistette lui, senza mai lasciarle il polso.
    “No, ho già detto tutto. Lasciami. Devo dormire”.
    “No. Parla”.
    Martine capì che non c'era via di scampo. Non si sarebbe liberata facilmente dalla presa, quindi le soluzioni rimanevano due: ignorarlo e chiudere gli occhi, oppure finire quel dannatissimo discorso. In realtà c'era una terza soluzione, ovvero lanciargli un calcio nello stomaco. Ma era talmente intorpidita e dolorante che si sarebbe fatta male da sola.
    “E va bene! Preferivo il Guy senza memoria ma con modi più dolci”. Fece un profondo respiro e lo fissò, decisa a non mettersi nuovamente a piangere.
    “Quello che mi premeva dirti era che sono in attesa di una risposta. Ti piaccio, non ti piaccio, provi qualcosa per me... una risposta qualsiasi, prima di arrivare a York, incasinarci con lo sceriffo, la fine del mondo e tutto il resto. Ho capito che qua le cose van di male in peggio molto rapidamente e il silenzio non serve a nulla. Quindi, anche a rischio di sembrare una scolaretta alla sua prima cotta, avrei voluto sapere se tutta la mia dichiarazione d'amore di prima avrebbe avuto una qualche speranza oppure sarebbe stata dimenticata non appena tornati a Nottingham. Sempre se torneremo a Nottingham. A questo punto non lo so. Non so nulla. A parte essermi risposta da sola, ovvero che non hai pensieri che per Marian. Marian di qua, Marian di là...”
    Guy l'attirò a sé e la baciò. Avvenne tutto così in fretta che le parole le morirono in bocca. Era talmente sconvolta da avere ancora gli occhi sbarrati quando lui si scostò, liberando la presa sul polso.
    “Ti avevo detto di non voler sentire quel nome”.
    “Beh... sì... cioè... giusto... uh...”
    Balbettò altre parole a caso, senza capire bene cosa fosse successo e soprattutto perché. L'aveva baciata. Era reale? O stava ancora sognando in preda all'intontimento da birra?
    “Ho avuto modo di pensare a quello che hai detto” proseguì Guy. “Ti avrei risposto, ma a quanto pare non potevi attendere la luce del sole”.
    “Haha, adesso è colpa mia. Grazie eh” rispose Martine con tono ironico, sorridendo dopo tanto tempo. Ciò che la sorprese fu che anche Guy piegò le labbra in un accenno di sorriso.
    “Ho sempre avuto rapporti complicati con le donne. Forse non le capisco oppure sbaglio qualcosa, ma finisco sempre per rimanere solo”.
    Cattive compagnie e pessimo carattere, avrebbe voluto aggiungere Martine, ma preferì evitare la critica crudele proprio ora che Guy le stava parlando apertamente.
    “E poi arrivi tu. Compari dal nulla, le assomigli così tanto... ho provato a non costruirmi false speranze, a trattarti come se non m'importasse nulla di te. Per come ti trattava lo sceriffo cominciai a nutrire dei sospetti sulla tua identità, così mi fu più facile ignorarti. Poi l'incidente e tu... mi sei rimasta accanto. Come hai detto tu stessa, avresti potuto lasciarmi sulla strada. Sarei morto se non fosse stato per il tuo aiuto”.
    “Esagerato” commentò Martine, ben sapendo che l'uomo diceva il vero. Con quella ferita, infetta e sanguinante, non avrebbe fatto molta strada.
    Guy avvicinò timidamente la mano, accarezzandole la guancia. Martine s'irrigidì, trattenendo un brivido.
    “Quindi la mia risposta è che non so come comportarmi. Non voglio finire nuovamente tradito e deriso da tutti. Ma provo qualcosa per te, un sentimento che mi scalda di nuovo il cuore. Ed è una sensazione piacevole”.
    “Oh Guy...” sussurrò Martine, pronta a piangere dall'emozione. Si avvicinò quel poco che bastava per baciarlo, stringendo il suo volto tra le mani. Guy le cinse la vita con il braccio.
    “Ti prego. Prometti di non mentirmi più. Mai più” le chiese, baciandole la fronte.
    “Te lo prometto. E tu non lasciarmi... non lasciarmi” e affondò il volto sul petto di lui. Guy sorrise e le accarezzò la testa. Martine poteva sentire il cuore di lui battere veloce. Proprio come il suo.
    “Promesso. Ora riposiamo. Domani sarà una lunga giornata e avremo ancora tempo per parlare”.
    Martine alzò la testa e annuì. Guy la baciò ancora, in un bacio che sembrò durare tutta la notte.
     
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